I luoghi comuni relativi alla “benemerita” operazione dantesca di Benigni varcano le Alpi, il Mediterraneo e l’Atlantico, e nel nobile idioma di Shakespeare rinnovano l’offesa all’illustre parlata dell’Alighieri. Per giunta con la consueta superficialità dei tempi moderni, che da qualche spunto mal digerito pretende di conoscere un argomento nella sua interezza, e sul medesimo disserta.

          Casualmente m’imbatto nel frettoloso parere del Professor Emanuel L. Paparella, del Broward College, che, dichiarando di non aver ancora letto il saggio “O Dante o Benigni”, tuttavia avanza critiche alla tesi che il libro sostiene per avallare quella di Lawrence Nannery per cui “the people were right and the academics were wrong”, la gente aveva ragione e gli accademici avevano torto: una distorta deificazione senza appello della vox populi.
Non che gli accademici siano immuni da errori e da pecche, ma il ritornello della loro chiusura di casta è ormai stucchevole e dannatamente noioso.
Riproponendo il quale Emanuel L. Paparella contesta inavvertitamente e ridicolmente anche se stesso, in quanto accademico; ma non proprio da accademico confuta la mia fondata ribellione alla dissacrazione dell’apice del patrimonio letterario italiano, perfino attraverso argomentazioni appariscenti, ma vuote, come quella che si appella al fitto uditorio adorante di fronte a un Dulcamara in Piazza Santa Croce, a Firenze, contrapposto al semideserto scenario romano dell’intervista all’autore del saggio O Dante o Benigni, presente su You Tube, per significare il “grande valore” della miserevole, invece, affabulazione benignesca e denigrare la critica così chiaramente “snobbata” che l’autore di O Dante o Benigni muove davanti ad una solitaria telecamera. (Ma da quando in qua ad un’intervista è solita assistere una folla di uditori?).

The interview is conducted in front of the Coliseum and one notices precious few people in the background. Contrast that scene, if you will, with that of Benigni reciting the Divine Comedy in front of Santa Croce in Florence with the square full of thousand upon thousands of people listening attentively [1].

Sfugge al Paparella che la verità è troppo spesso in solitudine, laddove la menzogna miete folle di proseliti. Vorrà forse dirmi che la musica di un rockettaro qualunque, perché riscuote l’ovazione di centomila astanti inebetiti, è più alta dei capolavori di Mozart e di Bach, che richiamano appena qualche centinaio di devoti padiglioni auricolari? Con l’interrogativo tanto sgradito al Paparella, “Since when have the ignorant “oi polloi” been the arbiter of what is artistic and of cultural value and what is only artifice and craft?” («Quando mai l’ignoranza dei più è stata arbitra di ciò che è artistico e di valore culturale e di ciò che è solo artificio e mestiere?»), nel nostro caso quanto mai opportuno, mi chiedo:  quando mai il consenso, soprattutto quello manovrato, fu parametro di elevata qualità? Oggi meno di sempre, di fronte alla martellante induzione mediatica che orienta alla dozzina di facile smercio. Legga con attenzione, il Paparella, le ragioni meditate, scritte e dimostrate nel mio voluminoso saggio; rifletta in maniera approfondita sulla Storia della Letteratura Italiana; torni a considerare soprattutto con diligenza quello che Dante stesso afferma nel De vulgari eloquentia, e si renderà conto della fragilità di certe sue proposizioni, o si asterrà almeno dal sostenere la fallace idea che il Sommo Poeta avrebbe scritto in Latino il suo poema se non avesse avuto l’intenzione di renderlo “popolare”.

After all, Dante as a humanist could have written the Commedia in Latin with the educated people attending universities as the target audience. He decided to write it in the “volgare illustre,” a dialectical corruption of Latin, the language of the people of Tuscany, in effect giving a literature to such language and permitting thereby the forging of a cultural identity. In some way the same was preannounced by St. Francis of Assisi when he wrote the first Italian poem (the Canticle of Creatures) in Italian a hundred years before Dante. What seems to have happened subsequently is that the academicians took possession of Dante’s great masterpiece and reduced it to something precious to be read and commented by precious few in academia. That is to say, Dante was hijacked by the academics [2].

Qualora non abbia proprio voglia di percorrere le letture e le riflessioni suggeritegli, il Professore si serva del mio contributo,  pubblicato il 3 ottobre 2012 sulla Rete
http://www.odanteobenigni.it/?p=2096).
Qui riporto quanto scrive, a proposito del volgare dantesco, il Sapegno, nel suo Disegno storico della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze 1974:

“Il De vulgari eloquentia è l’affermazione teorica della nuova poesia italiana, poesia dotta ed aristocratica alla quale non possono salire “se non quelli in cui sia ad un tempo ingegno e scienza”. Il volgare illustre è la lingua di questi poeti colti e raffinati, quale si è venuta formando a poco a poco attraverso le esperienze della Scuola siciliana, degli altri poeti eccellenti in ogni regione e soprattutto del Guinizelli e degli scrittori toscani del “dolce stil novo “: lingua letterariamente elaborata, dirozzata, ripulita, che “fra tanti rudi vocaboli dei latini, fra tante incerte costruzioni difettose pronunzie e contadinesche cadenze, è scelta così egregia, limpida, compiuta ed urbana, quale la mostran nelle loro canzoni Cino da Pistoia e il suo amico”, cioè Dante stesso. […] Il volgare illustre sarà la nuova grammatica, che fisserà in una relativa stabilità il perenne variare dei dialetti: e, lingua letteraria, esso è già nato nelle opere dei letterati più illustri è meglio dotati di cultura; e già opera efficacemente sui volgari stessi municipali, estirpando “dall’itala selva gli arbusti spinosi” e mettendovi “ogni giorno nuove piante e vivai”. Il significato profondo del De vulgari eloquentia è appunto in questa vigorosa consapevolezza dell’opera preminente degli scrittori nella formazione del linguaggio di un popolo; degli scrittori e dell’aula, cioè della corte, intesa anch’essa peraltro come centro culturale della nazione. […] L’errore di Dante nel De vulgari eloquentia è d’aver sentito la coscienza dell’arte in modo così forte da sopravvalutarla, trascurando o deprimendo l’uso comune, parlato e non letterario, della lingua…”.

A questo punto mi si faccia la cortesia di smetterla di affermare che Dante avrebbe scelto una lingua accessibile per essere capito dal popolo!
Come la si smetta di porre l’accento enfatico ed ammirato sulla divulgazione e sulla recitazione della Commedia da parte di Benigni:

A book has recently been published in Italy in the form of an essay by a professor of Latin and Italian Literature (Prof. Amato Maria Bernabei) titled “O Dante o Benigni.” [Either Dante or Benigni]. I have not read the book yet but I have viewed an interview he gave to a journalist on the essay in question and available to all on u-tube. The interview is conducted in front of the Coliseum and one notices precious few people in the background. Contrast that scene, if you will, with that of Benigni reciting the Divine Comedy in front of Santa Croce in Florence with the square full of thousand upon thousands of people listening attentively.
Basically the professor alleges that Benigni who recites Dante in the agora so to speak, is an impostor and a betrayer of Dante. Now, I tend to go along with his critique as far as the exegesis and the hermeneutics of the text is concerned, but I am less sure about the aspects of popularization and recitation of the Divine Comedy as carried on by the same Benigni, dubbed a Florentine clown by Prof. Bernabei [3].

“Popularization and recitation”! Recitazione cadenzata e monotona, sovente da inesperto studentello, divulgazione di una marea di interpretazioni incompetenti e cervellotiche e di riferimenti sballati. Quale lodevole benemerenza culturale! Professore, divulgheremo con merito la Medicina spiegando che il cervello svolge le funzioni del cuore e la vescica quelle del cervello?

Tutto ciò nel dover constatare, ancora una volta, che l’ignoranza travestita da sapere è ormai un valore trionfante. Altro che i dubbi del Professor Paparella!

«It is at that point that one begins to suspect that professional pique and resentment may be behind the lofty essay of the above mentioned professor. How dare a clown from Florence usurp his domain? One asks: could this be what’s at work behind Bernabei’s essay? I am not sure […] He seems to have difficulty even in maintaining eye contact with the interviewing journalist. He seems eager to return to the august halls of academia to dispense his precious pearls of wisdom to precious few selected students. I think that such a scene speaks for itself and needs no comments».
«È a quel punto che si comincia a sospettare che dietro l’elevato saggio del suddetto professore ci siano stizza e risentimento professionale. Come osa un clown di Firenze usurpare il suo dominio? Uno si chiede: potrebbe esserci questo dietro il saggio di Bernabei? Non ne sono sicuro […] Il professore Bernabei sembra avere difficoltà anche a mantenere il contatto visivo con il giornalista intervistatore. Sembra ansioso di tornare nelle auguste sale dell’accademia per dispensare le sue preziose perle di saggezza a pochissimi studenti selezionati. Penso che una scena del genere parli da sola e non abbia bisogno di commenti».

Che analisi! Che intuito! Al professor Paparella consiglio di nuovo di leggere il mio Saggio e di iscriversi a un corso di psicologia o di programmazione neurolinguistica, per poter meglio interpretare linguaggi verbali e non verbali di chi parla, in qualunque contesto, ma soprattutto comprendere le ragioni che possono spingere una persona a determinate “intraprese”, nella fattispecie all’assunzione ed allo svolgimento di un impegno culturale. E chissà che magari in futuro egli non impari a scrivere (ed a parlare) soltanto con piena cognizione di causa piuttosto che spinto da semplici impressioni.

Amato Maria Bernabei

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[1] L’intervista è condotta davanti al Colosseo dove si notano pochissime persone sullo sfondo. Confrontate tale scena, se volete, con quella di Benigni che recita la Divina Commedia davanti a Santa Croce a Firenze con la piazza gremita da migliaia e migliaia di persone che ascoltano rapite. Si noti come, tra l’altro, scioccamente Paparella confronti uno spettacolo di piazza con un’intervista, che generalmente si svolge da solo a solo, non certo alla presenza di pubblico!
[2] «Dopotutto, Dante, da umanista, avrebbe potuto scrivere la Commedia in latino, avendo come destinatarie di riferimento le persone istruite che frequentano le università. Decise invece di scriverla nel “volgare illustre”, una corruzione dialettica (? forse dialettale, dialectal quindi, non dialectical, almeno per la mia non profonda conoscenza dell’inglese) del latino, la lingua del popolo toscano, dando di fatto una letteratura a tale lingua e permettendo così di forgiare un’identità culturale. In qualche modo era stato, in questo, precursore San Francesco d’Assisi scrivendo il primo componimento in italiano (il Cantico delle Creature) cento anni prima di Dante. Quello che sembra essere successo in seguito è che gli accademici si impossessarono del grande capolavoro di Dante e lo ridussero a qualcosa di prezioso da dover essere letto e commentato da pochissimi privilegiati nel mondo accademico. Vale a dire che di Dante si sono impossessati gli accademici».
Precisiamo, a giovamento dello stesso Paparella, che il “volgare illustre” non è «la lingua del popolo toscano», come egli vuole; cosa che si evince direttamente dall’Alighieri nel De vulgari eloquentia XVII, 1-18: «Dobbiamo ora esporre perché definiamo il volgare da noi trovato con l’aggiunta di “illustre, cardinale, regale, curiale”: renderemo con ciò più chiaro ed evidente che cos’è questo volgare.
Spieghiamo dunque anzitutto che cosa intendiamo con l’aggiunta di “illustre” e per quale ragione usiamo il termine “illustre”. Con questo termine intendiamo qualcosa che illumina e che, una volta illuminato, risplende. In questo senso definiamo illustri certi uomini; essi infatti o ricevono luce dal potere e illuminano gli altri con la giustizia e la carità, o hanno ricevuto una dottrina eccelsa e impartiscono un’eccelsa dottrina: così fecero Seneca e Numa Pompilio. Ora, il volgare di cui parliamo è reso sublime dalla dottrina e dal potere e rende sublimi i suoi cultori con l’onore e la gloria.
Che sia reso sublime dalla dottrina, è evidente: infatti da tanti rozzi vocaboli degli Italiani, da tanti costrutti intricati, da tante forme errate, da tanti accenti campagnoli noi vediamo scaturire un volgare così eccellente, così sciolto, così perfetto, così urbano come quello che ci mostrano le canzoni di Cino da Pistoia e dal suo amico. Che poi esista un potere che lo eleva, si vede chiaramente. Qual maggiore potere infatti della possibilità di cambiare il cuore umano e di far volere chi non vuole e disvolere chi vuole, come ha fatto e fa questo volgare? Che esso poi renda sublimi conferendo onore, è palese. Forse che i suoi ministri non vincono per fama qualsiasi re, marchese, conte o signore? Non c’è proprio bisogno di dimostrarlo. Noi stessi del resto sappiamo quanto esso renda gloriosi i suoi amici, perché la dolcezza di questa gloria ci spinge a dimenticare il nostro esilio. Pertanto dobbiamo a buon diritto dichiararlo “illustre”».  Dante intendeva dunque creare una lingua per dotti e letterati!
[3] «Recentemente è stato pubblicato in Italia un libro, sotto forma di saggio, da un professore di letteratura latina e italiana (Prof. Amato Maria Bernabei) dal titolo “O Dante o Benigni”. [Either Dante or Benigni]. Non ho ancora letto il libro ma ho visionato un’intervista da lui rilasciata a un giornalista, sul saggio in questione, a disposizione di tutti su
Youtube. L’intervista è condotta davanti al Colosseo e si notano pochissime persone sullo sfondo. Confrontate quella scena, se volete, con quella di Benigni che recita la Divina Commedia davanti a Santa Croce a Firenze con la piazza gremita da migliaia e migliaia di persone che ascoltano rapite.
In fondo il professore sostiene che Benigni che recita Dante nell’agorà per così dire, sia un impostore e un traditore di Dante. Ora, sono propenso ad assecondare la sua critica per quanto riguarda l’esegesi e l’ermeneutica del testo, ma sono meno sicuro degli aspetti di divulgazione e recitazione della Divina Commedia portata avanti dallo stesso Benigni, considerato Clown fiorentino dal Prof. Bernabei».

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