di Enzo Ramazzina
Tra le forme di poesia classica, abbiamo sempre preferito il sonetto, perché la più agile ed equilibrata per misura e conformazione strofica. Con il sonetto, infatti, costituito da soli quattordici endecasillabi, distribuiti in due quartine e due terzine, un autentico poeta riesce ad esprimere una varietà notevole di immagini e di concetti e a lasciare ai lettori i più validi messaggi.
Non a torto il Carducci lo definiva “breve ed amplissimo carme”. Anche se questo genere di componimento si ritrova sul baratro dell’estinzione – come, del resto, un po’ tutte le forme di poesia regolate dalla metrica – tuttavia continua a mantenere una sua valenza letteraria incontestabile, talché, quando lo si legge, sovente l’animo si stupisce d’ascoltare ancora una rima fiorita e un verseggiare melodioso.
Il Dipartimento di Filologia e Critica dell’Università di Siena, in collaborazione con il Comune di Monterotondo Marittimo, bandisce ogni anno il prestigioso Premio Nazionale “Renato Fucini” per un sonetto inedito. Navigando in internet, ci siamo imbattuti per caso nella classifica e nell’esito finale della sesta edizione del predetto concorso, che, nel 2012, ha visto vincitrice Cristina Colli con un bellissimo sonetto intitolato “Lo svasso”.
Incuriositi, siamo andati a sbirciare le altre 75 poesie (su qualche centinaio) selezionate dalla giuria. La conclusione che abbiamo tratto è la seguente: solo 22 potevano dirsi veri sonetti, mentre le rimanenti 53, benché apprezzabili dal punto di vista del contenuto, presentavano macroscopici errori formali e di stile: qualcuna, addirittura, non aveva neppure la parvenza del classico componimento.
Ci saremmo meravigliati di questa scelta, se la giuria, costituita da una paio di docenti dell’Università di Siena e di Pavia, nonché da un critico letterario, da un saggista e da un poeta, non avesse formulato, con l’evidente intento di “salvare” una parte cospicua degli elaborati più dignitosi, un breve cappello introduttivo di questo tenore: “Naturalmente, come potrà constatare ogni lettore accorto, non tutti i testi partecipanti al Premio sono veri e propri sonetti. Alcuni autori, infatti, hanno voluto infrangere creativamente le regole della tradizione giocando sulla libera misura dei versi, o sulla loro disposizione nella strofa; altri, eludendo le regole, hanno inviato delle poesie in versi liberi, difficilmente riconducibili alla forma richiesta”. Insomma, un modo diplomatico per non tacciare d’inesperienza, o d’ignoranza, un bel numero di concorrenti.
“Ma – ci siamo chiesti alla fine – è proprio così difficile cimentarsi in questa nobile forma di poesia?”. Non ritenendo opportuno, in questa sede, impartire lezioni tecniche su come si scrive un sonetto, dato che gli sprovveduti in materia possono trovare in commercio validi manuali di stilistica e di versificazione adatti allo scopo, tenteremo, invece, di indurre alla riflessione quegli autori che, avendo già una certa dimestichezza con il genere, quando s’accingono a svolgere in versi un determinato argomento, per trarne appunto un sonetto, rischiano di… impelagarsi.
Dovrebbero fare attenzione, infatti, alle introduzioni troppo ampie e sproporzionate, ai nuclei centrali eccessivamente scarni e poco significativi, alle chiuse troppo rapide ed inefficaci, alle elucubrazioni e ai sottili ragionamenti, all’eccesso di simbolismi e all’abuso di figure retoriche, alle sottigliezze e ai cavilli filosofici, alle sentenze moralistiche, perché sono veri e propri guastafeste che riescono, in qualche modo, ad intaccare la validità e l’autenticità di un sonetto. In genere, sarebbe opportuno che ogni singola strofa avesse un carattere compiuto, anche se è auspicabile l’uso di qualche enjambement con il salto all’endecasillabo successivo. L’“incipit”, poi, dovrebbe introdurre due o tre parole ad effetto, per catturare subito l’attenzione del lettore. L’idea di fondo, inoltre, sarebbe quella di creare qualcosa di simmetrico.
Ciò premesso, diremo ora come il poeta, in un componimento di così limitata lunghezza, dovrebbe distribuire la materia oggetto della sua ispirazione, quando però egli intendesse conferirvi un’impronta prevalentemente lirica.
Se prendiamo in considerazione, ad esempio, uno dei sonetti più celebri della nostra letteratura, l’ “Autoritratto” di Vittorio Alfieri, che comincia con le parole “Sublime specchio di veraci detti, / mostrami in corpo e in anima qual sono”, notiamo che il componimento si presta ad essere diviso in due parti: nella prima, corrispondente pressoché all’estensione delle due quartine, il vate evidenzia le proprie caratteristiche fisiche con immagini vive ed efficaci (capelli rossi e radi, personale smilzo, gambe magre, pelle chiara, occhi azzurri, naso normale, labbra ben disegnate, denti bianchissimi ecc.); nella seconda, introdotta dall’immagine più bella e solenne della poesia in oggetto (“pallido in volto più che un re sul trono”), egli accenna, con straordinaria efficacia ed entrando in profondità, al suo ritratto morale, definendosi dapprima “duro”, “acerbo”, “pieghevole”, “mite”, “irascibile”, “non maligno”, per concludere con il contrasto fra le aspirazioni più sublimi e il senso della propria limitatezza e miseria. Il verso finale, emblematico per la sua essenzialità, è un capolavoro, divenuto persino un aforisma: “Uom, se’ tu grande o vil? Muori e il saprai”. Quattordici versi calibratissimi, dunque, dove si contemperano perfettamente caratteri fisici (prima parte) e psicologico-riflessivi (seconda parte).
Vediamo, a questo punto, un notissimo sonetto di Ugo Foscolo, “Alla sera” (“Forse perché della fatal quiete / tu sei l’imago, a me sì cara vieni, / o sera…”). Nella prima parte, scorrono immagini di “nubi estive”, “zeffiri sereni”, “aere nevoso”, “inquiete tenebre e lunghe”; dal settimo verso in poi (notate com’è perfettamente distribuita la materia), prevalgono il sentimento e la meditazione liberatrice, nonché l’accenno all’animo spesso agitato, ma talora pacificato e contemplativo sul far della sera. In pratica, nella limpida scioltezza dell’endecasillabo – come spiega il critico Carmelo Ripellino – “la fantasia coloritrice trova il suo conclusivo punto di fusione tra il pensiero filosofico e la forma poetica che lo esprime”.
Altro celeberrimo sonetto di Giosuè Carducci, “Il bove” (“T’amo, o pio bove; e mite un sentimento / di vigore e di pace al cor m’infondi”). Dapprima, s’avverte il gusto del rilievo plastico e della prospettiva architettonica, con quella figura monumentale del bove in mezzo alle zolle ribaltate dall’aratro e, dietro, la fuga dei campi, nonché, in iscorcio, la sagoma dell’agricoltore, mentre usa il pungolo con esortazioni nervose. Ma quando la prima terzina intona “Da la larga narice umida e nera / fuma il tuo spirto…”), ecco il prevalere dell’immagine metafisica: quella di uno spirito possente che esala col respiro, diffondendosi col muggito sonoro. L’ipallage finale (“il divino del pian silenzio verde”) è come un suggello mistico, una splendida sintesi audio-visiva della figura evocata nella prima parte del sonetto.
L’ispirazione del Carducci nasce quasi sempre dall’osservazione del paesaggio. Nel sonetto “Visione”, ad esempio, il poeta ci mostra il sole che spunta dalle “caligini scialbe”, illuminando il “verde tenero de la novale”; poi ci fa sentire “l’onda del Po regale” e del “nitido Mincio”. Ma, sul finire della seconda strofa, la lirica ci rivela un’anima pensosa, che apre le ali “bianche dei sogni verso un’idea”. Come a dire che, mentre il cuore del poeta tende ad indugiare verso un malinconico ricordo del passato (“la prima età”), la sua mente si protende verso il futuro, in uno stato simile all’estasi, in cui, come osserva Domenico Andreucci, “tutte le facoltà si risvegliano ed agiscono quasi contemporaneamente e ciascuna per sé”.
Una poesia poco conosciuta di Giovanni Pascoli, ma che consigliamo di recuperare e di rileggere con attenzione, è “Il ponte”: inizialmente un trionfo gioioso di immagini, le quali, però, dalla seconda quartina si velano d’angoscia, perché l’autore si pone alcune domande impegnative, che alludono chiaramente al mistero della nascita e della morte: “…l’onda si rompe al solitario ponte. / Dove il mar che lo chiama? e dove il fonte…?”. In pratica il procedimento fantasioso, carico di tonalità vivide e policrome, cede improvvisamente al fascino di meditazioni tormentose, mentre “spunta la luna” e “a lei sorgono intenti / gli alti cipressi della spiaggia triste”. Un magistrale accostamento di immagini e di concetti, con un’attenzione particolare alla punteggiatura, per indicare pause e sospiri.
Insomma, in queste splendide poesie, all’inizio spiccano i colori, i rumori, i suoni, le situazioni, oppure le caratteristiche del corpo, la fisicità: in parole povere, il “concreto”; ma, dal nucleo centrale in poi, i rispettivi poeti tendono quasi sempre a riflettere, a ripiegarsi in se stessi, privilegiando l’emozione, la meditazione e, in buona sostanza, l’“astratto”. Potremmo continuare con la citazione di altri sonetti, tratti, ad esempio, dalle raccolte del D’Annunzio, o di alcuni grandi autori moderni, considerati maestri in questo genere; ma crediamo che gli esempi sopra menzionati siano sufficienti a far capire l’importanza di organizzare le varie fasi di un componimento poetico così speciale.
Certo, non tutti i sonetti classici seguono lo schema più sopra illustrato: d’altra parte, non è una nostra scoperta che, nel corso dei secoli, si è sempre riconosciuta agli autori una certa libertà stilistica. In ogni caso, un sonetto è bello quando, scaturito dall’ispirazione e dalla “professionalità” di un vero poeta, ci lascia convinti che, a dispetto delle mode letterarie a volte neglette, trasandate, o farraginose, non è ancora un’arte perduta.
E concludiamo queste nostre riflessioni ritornando all’assunto iniziale. Splendida, dicevamo, la lirica vincitrice del premio “Renato Fucini 2012”, che, presentandoci un magistrale abbinamento di “concreto” (immagini e situazioni) ed “astratto” (riflessioni), fa così:
Sull’acqua calma un solco ancora resta:
un uccello s’è immerso per far prede.
I pesci si disperdono in tempesta,
in un mobile vortice che incede.
Minacciosa elegante agile presta,
la creatura dell’aria al fondo accede,
ma del rivolgimento che vi desta
un’onda dolce è quello che si vede.
Così, quando il tuo sguardo nel mio affonda,
del mio cuore percosso tra onta e gloria
soltanto appare l’accenno di un’onda.
Lo svasso, ch’è riemerso con vittoria,
di quel ch’è stato nell’acqua profonda
forse di già non serba più memoria.
Enzo Ramazzina
“La Nuova Tribuna Letteraria” n. 110, aprile 2013