Il verso probabilmente più noto della Divina Commedia ha forse dato vita ad uno dei più tenaci equivoci della Storia della Letteratura, se è vero che esso dura da più di sette secoli: l’amore che assicura a chi ama di essere riamato! Come poteva il genio di Dante esprimere una così sciocca sentenza? Non convincono certo i riferimenti al trattato di Andrea Cappellano, che dovrebbero suffragare l’esegesi tradizionale: Dante ha scritto, a nostro avviso, un aforisma che non è mai stato capito! Proviamo a dimostrarlo… provando nello stesso tempo che il Saggio “O Dante o Benigni” sa anche essere propositivo.
AMOR NIL POSSET AMORI DENEGARE
Amor ch’a nullo amato amar perdona…
Il nostro primo dubbio sull’interpretazione del verso Amor ch’a nullo amato amar perdona risale alla seconda metà degli anni Sessanta. Leggevamo la Storia della Letteratura Italiana di Arturo Pompeati (UTET, 1965) e il rapido, lapidario commento del critico, riferito all’aforisma dantesco: “Eresia psicologica che è poi invece il dogma degli amori corrisposti” ci provocò un immediato senso di ribellione! In che modo un genio come Dante era potuto incorrere in un abbaglio del genere? Qualunque essere umano, di qualunque estrazione mentale, sa che non basta amare per essere riamati: magari fosse così! Nessun amante sarebbe mai respinto e non esisterebbero delusioni d’amore. Il pensiero di Dante non poteva essere quello. C’era però tutta la tradizione ermeneutica a supporto dell’affermazione del Pompeati, che bollava il verso come “eretico” attenuando appena la condanna in riferimento al caso specifico. E c’era il Gualtieri [1] del Cappellano! Non avevamo risorse, allora.
Per lustri il dilemma fu un sedimento, un tarlo di cui avvertivamo talvolta il rodere sommesso, un seme sulla pietra… Non sapremmo per quale battito di vento quel seme sia scivolato sul terreno per germogliare…
La lingua non ha le caratteristiche della matematica, è per sua natura ambigua, polisemica, non solo per la pluralità dei significati che un vocabolario attribuisce a molti dei singoli lemmi, quanto, se non soprattutto, per la varietà di senso cui danno luogo le associazioni delle parole. [2] Non a caso, le moderne esigenze dell’informatica hanno portato al moltiplicarsi delle ricerche per la messa a punto dei programmi di gestione del testo linguistico, in relazione ai problemi generati dall’ambiguità semantica.
La premessa è breve, ma è sufficiente, in questo contesto, per gli scopi che ci prefiggiamo, anche se non si impedisce a nessuno di approfondire l’argomento.
L’interpretazione tradizionale del verso di cui ci occupiamo, si è sempre appoggiata alla teorica dell’amor cortese, in particolar modo al trattato di Andrea Cappellano, rimanendo rigidamente imprigionata in un certo tipo di lettura del Gualtieri, cui sacrificava perfino l’intelligenza dell’Alighieri.
Bruno Gentili, a proposito, molto recentemente ha sostenuto: «Questa norma di reciprocità e reversibilità sarà un principio cardine dell’amore cortese del XII secolo [3] e varrà nelle teorie degli scrittori religiosi medioevali come argomento per dimostrare la necessità di amare Dio con l’amore che Dio nutre per tutti gli uomini; [4] diverrà poi in Dante il simbolo del tragico amore di Francesca: “amor ch’a nullo amato amar perdona”, amore che non consente che chi è amato non riami». [5]
Per come si presenta, l’opera di Andrea Cappellano “fu solennemente condannata dal vescovo di Parigi, Etienne Tempier, il 7 marzo 1277, [6] malgrado lo stesso autore avesse in qualche modo bilanciato l’arditezza delle sue tesi nel terzo libro del trattato, significativamente intitolato De reprobatione amoris, che offre una sorta di palinodia di quanto veniva sostenuto nei due libri precedenti”; [7] per questo essa non sembra conciliabile con l’ortodossia che anima la Commedia. La cosa avrebbe dovuto indurre a una riflessione più accurata. Gianfranco Contini, a dire il vero, sostiene che «Dante conosceva Gualtieri e per quanto egli avvolga quel nome nel manto della più totale preterizione e, certo, disistima», l’opera è puntualmente dietro il discorso di Francesca, e per essa di Dante”. [8] Si può anche essere d’accordo, purché si precisi che Dante, ponendo sulle labbra e nel cuore di Francesca il pensiero del Cappellano, altro non sceglie che sottolineare la colpa della peccatrice, [9] se è vero che il De amore era stato condannato proprio per la sua concezione contraria alla morale cristiana. [10] Vogliamo dire che, per il suo carattere “trasgressivo”, il trattato del Cappellano ben si prestava a giustificare il perseverante peccato dei due dannati. È innegabile, infatti, l’appellarsi di Francesca alla forza irresistibile dell’amore senza alcun accenno al pentimento, che cerchi discolpa o comprensione, oppure entrambe. È altrettanto evidente che, se Dante avesse fino in fondo legittimato il peccato di Francesca attraverso il Gualtieri, non avrebbe collocato i due cognati adulteri all’Inferno. Il suo “pietoso” ascolto non può essere quindi indulgente: la sua è sempre, sarà sempre, un’umana comprensione, mai un avallo, in un tragitto di redenzione proteso all’affrancamento dagli affetti umani verso l’amor che move il sole e l’altre stelle. E se la carnalità è passione di cui l’Alighieri conosce la prepotenza, la vertigine, addirittura, sia pure nella “pietà” (e caddi come corpo morto cade), egli “cadrebbe” davvero in un’insanabile, incomprensibile contraddizione se volessimo artificiosamente attribuirgli complicità nei confronti di Francesca da Rimini e di Paolo Malatesta, o trasformare, come fa lo sprovveduto Roberto Benigni, il V Canto dell’Inferno, da esempio di condanna ad apoteosi dell’amore, non solo dei sensi.
Noi crediamo che un’analisi più indipendente e la maggiore flessibilità conseguente, avrebbero potuto aprire alla critica sbocchi diversi. Non condizionati dalla precedente letteratura sull’argomento, o da questa spinti alla “difesa” di Dante, non siamo mai riusciti ad accettare l’esegesi universalmente condivisa.
Commentando il verso che analizziamo, Natalino Sapegno sostiene: “La tesi è esposta nel De amore di Andrea Cappellano (De amore, II 8, reg. 26); ed era vera anche per gli scrittori religiosi, come argomento per dimostrare la necessità di amare Dio; così Fra Giordano da Pisa: ‘Non è nullo che, sentendosi che sia amato da alcuno, ch’egli non sia tratto ad amar lui incontanente’; e Santa Caterina: ‘naturalmente l’anima è tratta ad amare quello da cui sé vede essere amata’” (Natalino Sapegno, La Divina Commedia, Inferno). Approfondiamo allora le citazioni alle quali il critico si riferisce.
1) Amor nil posset amori denegare: l’amore non può negare nulla all’amore.
“Il volgarizzamento” fiorentino, conosciuto come traduzione romana per la sede in cui è custodito (la Vaticana), traduce: l’amante lievemente non può distorre a l’altro nulla… Già sorge il dubbio: vorrà davvero il Cappellano significare quello che Dante dovrebbe ripetere e che a nostro parere nessuno dei due proprio dichiara? Per di più la proposizione ha una struttura che richiama il principio di non contraddizione: l’amore non può negare se stesso, non può essere non-amore.
2) Non è nullo che, sentendosi che sia amato da alcuno, ch’egli non sia tratto ad amar lui incontanente (Fra Giordano da Pisa); naturalmente l’anima è tratta ad amare quello da cui sé vede essere amata (Santa Caterina).
3) Aggiungiamo noi, attraverso il già citato Santagata: “Francesca è più realista del re: nell’indicare la bellezza come causa dell’amore nato fra lei e Paolo, senza saperlo, lei, che ha velleità di donna colta, colloca se stessa, stando proprio al Cappellano, fra i “semplici”, gli “indotti”:
formae venustas modico labore sibi quaerit amorem, maxime si amorem simplicis requirit amantis. Simplex enim amans nil credit aliud in amante quaerendum nisi formam faciemque venustatem et corporis cultum [la bellezza si procura l’amore con poca fatica, soprattutto se aspira all’amore di un innamorato “ingenuo”. L’innamorato ingenuo, infatti, crede che nell’amata non si debba cercare che la bellezza, la piacevolezza, la leggiadria, l’aspetto curato].
Opposto è il comportamento del “savio”, del “doctus”:
morum probitas acquirit amorem in morum probitate fulgentem. Doctus enim amans vel docta deformem non reiicit amantem, si moribus intus abundet (I x, 18) [la virtù d’animo cerca un amore che risplenda della virtù d’animo: l’innamorato savio, o l’innamorata, infatti, non respinge un amato brutto, se dentro è ricco di virtù].
Insomma, Francesca è colta e informata, almeno quanto è superficiale e semplificatrice”.
Perché Dante avrebbe scelto per Francesca di ritenere l’attrazione fisica quale “prima radice” dell’amore colpevole (prese costui de la bella persona), quando nel Cappellano si considera chiaramente anche l’amore verso cui tende la virtù d’animo? Evidentemente per rimarcare la condizione di peccatrice dannata dell’amante di Paolo. Non è quindi nemmeno necessario pensare, come Marco Santagata, che “Dante affidi ai discorsi e ai comportamenti di una donna come questa il compito di esemplificare le colpe etiche e culturali della civiltà cortese o quanto meno della sua letteratura…” o, più correttamente, “che Dante, attraverso Francesca, intenda esemplificare un modo distorto di leggere quei testi, che la sua, cioè, non sia una critica all’ideologia dell’amore cortese, ma alla ricezione che certi ambienti sociali al suo tempo ne facevano” .
Infatti il Cappellano è ben attento a lasciare “alla persona amata la libertà di non riamare chi lo (o la) ama” [11]
Ideo ergo amor in arbitrio posuit amantis, ut, quum amatur, et ipsa, si velit, amet, si vero nolit, non cogatur amare (I, 44) [Dunque amore ha lasciato facoltà a colei che ama, quando è amata, di amare a sua volta, se vuole, e di non essere costretta ad amare, se invece non vuole];
Vere profiteor in mulieris esse collatum arbitrium postulanti, si velit, amorem concedere, et, si non concedat, nullam videtur iniuriam facere (I, 104) [Affermo che alla donna è stata attribuita facoltà, se vuole, di concedere il suo amore a chi la ama, e, se non lo concede, non si ritiene che commetta un torto].
“La sofisticazione della dottrina di Andrea – commenta Avalle – non poteva essere più disinvolta, soprattutto laddove si fa esplicito riferimento all’‘arbitrio’ della persona amata (nella fattispecie della donna)”. Ne conclude che di quel dialogo Francesca è “cattiva o interessata lettrice”.
A noi interessa in modo particolare proprio la facoltà di assenso che il Cappellano riserva alla donna amata e che sarebbe in forte contraddizione con le regole che i critici adducono a sostegno dell’interpretazione del passo dantesco. Perché a nostro avviso è possibile dimostrare che tale contraddizione non c’è!
Abbiamo raggruppato nel punto 2 le due citazioni degli scrittori religiosi perché esse appartengono ad una stessa categoria e perché – non escludiamo il passo del De amore cui poc’anzi si accennava (la virtù d’animo cerca un amore che risplenda della virtù d’animo) – trovano proprio nella Divina Commedia, ma non nel V dell’Inferno, un’eco incontestabile (già rilevata dal Boccaccio nel suo Comento alla Divina Commedia, Lez. VIII):
… “Amore, / acceso di virtù, sempre altro accese…” (Purgatorio, XXII, vv. 10-11)
In tutti e tre i passi su citati l’amore di cui si parla è “virtuoso”, inoppugnabilmente: e non è la passione che unisce Paolo e Francesca.
Perché Dante ha bisogno di precisare “acceso di virtù”? O forse questa non è una puntualizzazione, sicché l’Alighieri considererebbe virtuoso anche l’amore dei lussuriosi del II Cerchio infernale? Un’ipotesi quantomeno ardua da sostenere. Il nostro precedente dubbio diventa più forte.
C’è di più: quando Francesco da Buti (1324-1406) sostiene che l’amore “carnale non accende sempre, imperò che non accende se non li carnali; ma l’amore virtuoso sempre accende li virtuosi”, nemmeno può essere citato per suffragare l’ipotesi che “l’amore non perdona a nessun amato di riamare”, perché quanto meno esso “perdona” al virtuoso di riamare il colpevole! Dunque la massima dantesca non conterrebbe il caso dell’amore colpevole che ama il virtuoso, dal quale evidentemente non può essere ricambiato!
La questione diventa più complessa, ma anche più affascinante. Forse è il caso di tornare al testo del Cappellano, a quello che per i critici sembra essere stato il più condizionante.
Amor nil posset amori denegare
Intanto il congiuntivo posset non rende la regola del Cappellano apodittica… In secondo luogo l’asserzione non è affatto univoca e contiene in sé, al di fuori quindi del contesto riferito a Dante e al Cappellano stesso, almeno cinque significati, non considerando la “variabile di conoscenza”, che analizzeremo successi-vamente:
- L’amore niente potrebbe negare all’amore: principio di non contraddizione: A non è NON-A;
- L’amore niente potrebbe negare “a se stesso”, niente potrebbe negarsi, tutto permettersi;
- L’amore possibile di X per Y niente potrebbe negare (anche se X ancora non ama Y) all’amore nutrito da Y per X: il caso dell’interpretazione tradizionale.
- L’amore che X nutre per Y niente potrebbe negare all’amore ricevuto da Y: l’amore di X concederebbe tutto a Y che ricambia.
- L’amore che X nutre per Y niente potrebbe negare all’amore possibile di Y per X: niente X negherebbe a Y, che questi ricambi o meno.
Consideriamo adesso tutti i casi possibili inserendo la “variabile di conoscenza”, dal momento che la domanda che Dante rivolge a Francesca indica che i due cognati non erano a cono-scenza del loro sentimento fino al giorno della lettura fatale:
A che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri?
X = Francesca; Y = Paolo; A = Amore
1 A non è non-A
2 A non nega nulla ad A, tutto concede a se stesso
3 X non ama Y che non lo sa; Y ama X che non lo sa (premessa favorevole all’interpretazione tradizionale):
X amerà necessariamente Y: è il caso di “amor ch’a nullo amato amar perdona” secondo la tradizione, visto che mi prese del costui piacer sì forte indicherebbe che Francesca si sarebbe innamorata come conseguenza dell’amore di Paolo, non essendole possibile sottrarsi per la forza stessa dell’amore! Perciò X che non amava Y, nel momento in cui si rende conto che Y l’ama, è costretto a ricambiare!
X non ama Y che non lo sa; Y ama X che lo sa (non è il caso del passo Dantesco)
X non ama Y che lo sa; Y ama X che non lo sa (non è il caso del passo Dantesco)
X non ama Y che lo sa; Y ama X che lo sa (non è il caso del passo Dantesco)
4 X ama Y e Y non lo sa; Y ama X che non lo sa: è la premessa per l’avverarsi della nostra interpretazione
X ama Y e Y non lo sa; Y ama X che lo sa (non è il caso del passo Dantesco)
X ama Y e Y lo sa ; Y ama X che non lo sa (non è il caso del passo Dantesco)
X ama Y e Y lo sa; Y ama X che lo sa: è la combinazione dell’avverarsi della nostra interpretazione.
5 X ama Y e Y non lo sa; Y non ama X che non lo sa
X ama Y e Y non lo sa; Y non ama X che lo sa
X ama Y e Y lo sa; Y non ama X che non lo sa
X ama Y e Y lo sa; Y non ama X che lo sa
Le quattro combinazioni del punto 5 riguardano il caso in cui è Paolo che non sa (la prima combinazione contiene la premessa per cui egli “sarebbe costretto” ad amare Francesca una volta venuto a conoscenza dell’amore di lei, secondo l’interpretazione tradizionale), ma non le analizziamo in dettaglio perché non si conciliano con il racconto dantesco.
6 X non ama Y; Y non ama X: questa combinazione e quelle da essa derivanti, non interessano ai fini della nostra dimostrazione.
La condizione che avalla l’interpretazione da noi scelta è quindi: X ama Y e Y lo sa; Y ama X e X lo sa
Vediamo come:
X ama Y e Y non lo sa; Y ama X e X non lo sa
Francesca ama Paolo e Paolo non lo sa; Paolo ama Francesca e Francesca non lo sa – ma…
per più fiate gli occhi ci sospinse
quella lettura e scolorocci in viso – a questo punto
X ama Y e Y lo sa; Y ama X e X lo sa
Francesca ama Paolo e Paolo lo sa; Paolo ama Francesca e Francesca lo sa
dunque
l’amore nutrito (amor) che a nessuno ricambiato (ch’a nullo amato) dà scampo (amar perdona)
mi prese del costui piacer sì forte… divampò senza controllo.
Prima di trarre le conclusioni estendiamo l’analisi ad un’altra regola alla quale i critici si appellano per la loro dimostrazione:
Amare nemo potest, nisi qui amoris suasione compellitur
Nessuno può amare se non costretto dalla potenza dell’amore (è la traduzione più ricorrente).
Non ci pare che questa “regola” dica qualcosa di nuovo o di straordinario per avvalorare in maniera decisiva l’interpretazione del verso 103 del Canto di Francesca secondo la formula ormai consolidatasi. Anche in questo caso si manifesta una pluralità di significati, sia pure molto più limitata.
Amoris è genitivo soggettivo oppure oggettivo? Significa dell’amore o per l’amore?
– Nessuno può amare se non chi è conquistato all’amore dal fatto di essere amato? (genitivo oggettivo) oppure
– Nessuno può amare se non chi è spinto a farlo dalla forza dell’istinto naturale? (genitivo soggettivo) o ancora
– Nessuno può amare se non chi è costretto dalla spinta dell’amore (astrattamente)? (genitivo soggettivo)
– Oppure, addirittura: al cuor non si comanda? (Se mai, quindi, il motivo per cui Francesca non poté amare Gianciotto).
Senza volerci atteggiare a latinisti, la nostra sensibilità ci fa sentire in suasione la “suasio”, appunto, non la “vis”, di modo che nel “suasione compellitur” avvertiamo più un sospingere che un costringere, pur dovendo ammettere che il compellitur allude a un impulso irrefrenabile. Il volgarizzamento però traduce: Niuno può amare se non quello ov’è il suo cuore e l’irrefrenabilità può essere allora intesa come spinta incoercibile verso l’oggetto d’amore prescelto. La regola vorrebbe dunque semplicemente significare che nessuno può amare se non l’oggetto d’amore verso cui è orientato irrimediabilmente il suo cuore e, in modo sottinteso, forse, che nessuno può spingere chicchessia ad amare un oggetto d’amore diverso da quello che questi ha prescelto! Da qui ad affermare che, quando si ama, certamente si sarà ricambiati, il passo è ben lungo.
Adattando al verso dantesco il significato della regola del Cappellano che, fra quelli possibili, ci è sembrato il più congeniale, capace di dare maggiore coerenza allo stesso pensiero del De Amore, [12] ne conseguirebbe, come si è visto, che Dante non si contraddice con quanto afferma nel Purgatorio (XXII, vv. 10-1), ma soprattutto che non cade nell’”eresia psicologica” rimproveratagli dal Pompeati (e non solo): l’amore di X per Y non permette a nessun X di sottrarsi all’avveramento della relazione amorosa nell’evenienza in cui Y sveli il suo amore a X; l’amore (che quindi deve già essere nutrito) come sentimento, non come forza astratta, o addirittura come divinità, non permette a nessuno, che lo nutra, di sottrarsi all’oggetto d’amore che si dimostra a sua volta innamorato. Se è necessario un così contorto ragionamento per dare chiarezza al significato del verso, è pur vero che una volta acquisita la comprensione, il senso del verso medesimo diventa intuitivo: l’amore nutrito (amor) che a nessuno che sia corrisposto (ch’a nullo amato) dà scampo (amar perdona).
Tralasciamo a questo punto le X e le Y e riferiamoci a Paolo e Francesca, riepilogando il senso completo delle più famose terzine del V Canto dell’Inferno.
Il sentimento d’amore che rapidamente si accende nell’animo nobile, ad esso naturalmente disposto, innamorò Paolo dell’avvenente aspetto che mi fu strappato con la violenza da Gianciotto, e della natura di quell’amore “proibito” ancora subisco le conseguenze (in tutti i sensi). L’amore nutrito nei confronti di Paolo, che non mi ha permesso, come non permette a nessuno in condizioni analoghe, di eludere chi a sua volta si dimostrava innamorato di me, mi divampò dentro, mi prese [13] in maniera così forte, che, come puoi ben constatare, perdura. Sicché fummo condannati da una stessa passione ad una stessa morte (sia fisica che spirituale [14]): ma chi ci ha tolto la vita finirà fra i traditori dei parenti, nel fondo dell’Inferno (Caina)!
Non abbiamo la pretesa di aver detto la parola definitiva a riguardo, ma godiamo della soddisfazione di essere pervenuti a un senso che non espone Dante alla critica di aver preso un abbaglio così clamoroso (non c’è giustificazione che potrebbe perdonarlo: nessuno mai avrebbe potuto sostenere un principio tanto assurdo come quello che vuole un “amato” costretto a corrispondere, tanto meno un genio come l’Alighieri).
A titolo di curiosità riportiamo anche una prima idea, quella che ha mosso la ricerca successiva, da noi in seguito scartata perché poco lineare e scarsamente eufonica nella lettura alla quale costringeva, ma che comunque può giovarsi di tutte le argomentazioni che abbiamo addotte.
Amor ch’a nullo amato amar perdona
Amor che a nullo (a nessuno, considerato come pronome) perdona amar (permette di non amare) amato (la persona scelta come oggetto d’amore; “amato” va qui considerato con funzione logica di complemento oggetto).
Non c’è forza che permetta di sottrarsi all’amore per la persona che si ama (amato), verso la quale si prova cioè trasporto amoroso.
L’uso di nullo come pronome si ritrova in Dante altre due volte (se non abbiamo commesso errori nel controllo):
Inferno, Canto XXXI, verso 81
come ‘l suo ad altrui, ch’a nullo è noto
Paradiso, Canto XXIV, verso 21
che nullo vi lasciò di più chiarezza
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L’esegesi è tratta dal Saggio O Dante o Benigni, di Amato Maria Bernabei, Arduino Sacco Editore, Roma 2011, pp. 283-295
→ Consulta il parere di Giorgio Bàrberi Squarotti in fondo alla scheda
[1] http://www.classicitaliani.it/index124.htm.
[2] Qual è il senso dell’espressione “gli acidi grassi”? Quello di acidi monocarbossilici alifatici, ingredienti costitutivi di quasi tutti i lipidi complessi e dei grassi vegetali e animali, oppure semplicemente di grassoni astiosi e malevoli? “Il primo atto del barbiere” è l’insaponatura o la prima parte dell’opera di Rossini? “I testi sono portatori di ambiguità, di carattere semantico e sintattico”… “Non è forse superfluo ricordare ancora una volta che i significati connotativi sono estremamente instabili, e che i significati denotativi di una parola in un codice naturale differiscono sempre da quelli di qualsiasi altra parola, sia appartenente al medesimo codice naturale, sia appartenente a un altro codice naturale”.
http://courses.logos.it/pls/dictionary/linguistic_resources.cap_2_10?lang=it
[3] A. Cappellano, Trattato d’amore, testo latino del XII secolo con due traduzioni toscane inedite del secolo XIV, a cura di S. Battaglia, Roma 1947, regola IX: “Amare nemo potest nisi qui amoris suasione compellitur”; regola XXVI: “Amor nil posset amori denegare”; cfr. Contini 1976, p. 46 e soprattutto Avalle 1977, pp. 39 sgg.
[4] Fra Giordano da Pisa: ‘Non è nullo che, sentendosi che sia amato da alcuno, ch’egli non sia tratto ad amar lui incontanente’; Santa Caterina: ‘naturalmente l’anima è tratta ad amare quello da cui sé vede essere amata’. Cfr. Avalle 1977, p. 41.
[5] (Bruno Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2006, p. 152).
[6] Cfr. A.J. Denomy, The “De amore” of Andreas Capellanus and the Condemnation of 1277, in Mediaeval Studies, 1946, vol. VIII, pp. 107-49.
[7] http://www.indire.it/lucabas/lkmw_file/leggereDante/V_Inf_Malato.pdf.
[8] www.indire.it/leggeredante/upl/enrico_malato/La%20dottrina%20medievale%20dell’amor%20cortese.doc
[9] “Non vale quasi la pena di rilevare la profonda dissimiglianza fra ciò che Francesca pensa dell’amore e il “tono” della canzone guinizzelliana da lei addotta come auctoritas: è evidente che Francesca esprime convinzioni sue e intreccia sue parentele culturali che Dante non avrebbe facilmente accettato. Dante come avrebbe potuto appiattire il “padre” suo e “de li altri… che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre” (Purg. XXVI 97-99) su una concezione puramente fisica e materialistica dell’amore?” (Marco Santagata).
http://www.italica.rai.it/principali/dante/santagata/capitoli/f_10.htm
[10] “Il Cappellano espone, in effetti, un’idea materialista dell’amore, basato sul desiderio fisico e teso al suo soddisfacimento” (Marco Santagata, nel sito citato).
[11] Avalle, D’Arco Silvio. “Prolegomeni all’innominata” In: Istituto Universitario Orientale, Napoli. Beatrice nell’opera di Dante e nella memoria europea 120-1990. Atti del Convegno Internazionale 10-14 dicembre 1990, a c. di Maria Picchio Simonelli. Firenze, Cadmo 1994, 29.
[12] Cfr. la combinazione sopra analizzata “X ama Y e Y lo sa; Y ama X e X lo sa” e le interpretazioni date del testo del Cappellano.
[13] In quest’ottica del costui piacer diventa “per il fatto di essere corrisposta, perché anch’io gli piacevo”. Il Caretti aveva già proposto “amore” come significato di piacer, osservando che: «Il parallelismo delle due terzine non si attua attraverso la bellezza della donna e quella dell’uomo […], bensì attraverso l’identica irresistibile forza onde son mossi i due affetti»
http://2rosati.blogspot.com/2010/08/1.html.
[14] La “seconda morte” cui Dante allude nel I Canto dell’Inferno (verso 117). Vale la pena di far notare che nel commentare il verso appena ricordato, con la consueta superficialità, frutto della sua frettolosa preparazione, Benigni riferisce l’interpretazione meno attendibile (per cui la seconda morte sarebbe quella successiva al Giudizio Universale: seconda morte) non alludendo nemmeno a quella più probabile, fondata sui testi danteschi e sulla tradizione. Vos autem divina iura et humana transgredientes, quos dira cupiditatis ingluvies paratos in omne nefas illexit, nonne terror secunde mortis exagitat…? (secondo il testo curato da Ermenegildo Pistelli per l’edizione della Società Dantesca Italiana, 1921): “Voi, poi, trasgressori delle leggi divine e di quelle umane, che le funeste fauci della cupidigia lusingarono ad apprestarvi ad ogni iniquità, non vi perseguita il terrore della dannazione…?” (Epistole, VI, 5, Dante, Tutte le opere, Newton Compton, Roma, 1993, p. 1165; cfr. pure “ka la morte secunda no ‘l farrà male”, San Francesco, Il Cantico di Frate Sole, 31). Per quanto riguarda l’affermazione che i dannati aspettano la seconda morte “sperando di stare un pochino meglio”, è evidente che Benigni non si ricorda del dialogo fra Dante e Virgilio nel VI Canto dell’Inferno, ai versi 103-108 (e che lui stesso “spiega”, come è possibile ascoltare dal documento sonoro staranno peggio tratto dalla serata del VI Canto, nel quale è stato operato il taglio – farraginoso e inutile ai nostri fini – di una breve digressione; senza tener conto che nel documento riportato Benigni prima afferma che la Summa Theologica è… Dio, poi allude non alla creatura più perfetta, ma alla “pena più perfetta”!): … «Maestro, esti tormenti / crescerann’ ei dopo la gran sentenza, / o fier minori, o saran sì cocenti?». / Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza, / che vuol, quanto la cosa è più perfetta, / più senta il bene, e così la doglienza.
IL PARERE DI GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI
Torino, 24 gennaio 2012
Caro Bernabei,
Le sono grato dell’invio della Sua geniale e documentata interpretazione della celebre terzina dantesca del potere dell’amore secondo Francesca. Mi piacerebbe discutere con Lei della questione, perché qualche dubbio in me rimane.
[…] Le propongo qualche ulteriore aspetto del testo, premettendo che le osservazioni di Santagata non mi convincono, in genere, in confronto con le proposte di Edoardo Sanguineti e di Angelo Iacomuzzi. A parlare è un’anima dannata che cerca di spiegare a Dante il suo errore mortale che l’ha portata all’inferno. Non si tratta soltanto delle citazioni vere dei canoni mondani dell’amore con cui Francesca vuole “giustificarsi”, scaricando su di loro la responsabilità del peccato, ma della confusione che Francesca fa fra l’amore terreno e fisico e l’Amore che move il sole e l’altre stelle. Come dice Bonaggiunta, le “nuove” rime (dei due Guidi, di Guinizelli in specie per il rimatore lucchese) guardano alla filosofia e all’idea dell’amore al tempo stesso divino e cortese, e non più alla naturalità sola del poetare che non può essere se non dell’amore di uomo e donna, come dice Dante stesso nel venticinquesimo capitolo della Vita nova. Nell’episodio della Commedia c’è l’eco della concezione dell’amore secondo la filosofia che Guido Cavalcanti espone e da cui Dante si distacca proprio nella Commedia. L’episodio dell’Inferno io credo che debba essere letto in questa prospettiva. Di qui, secondo me, l’ambiguità dell’orazione di Francesca.
Auguri per il volume dantesco! Con i più vivi saluti,
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