In un tempo in cui il genere della poesia langue e trionfa l’andare a capo “senza misura”, senza metro come senza equilibrio estetico, che di tutto fa “poesia”, ospitiamo il lodevole uso riproposto della struttura forse ideata da Jacopo da Lentini nel XIII secolo: il sonetto, dalla parola provenzale sonet (suono, melodia), le cui cadenze, quando sapientemente sostenute, imprimono alla composizione rinnovate armonie.
Bisbigliar si conviene
voglio i semplici al cuor fiori avventizi
che germogliano all’ombra del trifoglio.
bruciati nei turiboli dorati,
non drappi, o fiocchi, o cantici melensi,
ma a fior di labbra preghi sussurrati.
viaggio intraprende, privo di ritorno:
a chi passò, invisibile ed ignoto,
spargendo rime giorno dopo giorno
per un messaggio che non fu mai vuoto,
sebbene esiguo d’anima e contorno.
Il papavero solitario
e la corolla, al solito superba,
pendeva dallo stelo reclinato.
“Se in questo sconfinato campo io sono
l’unico fior della mia specie, orrendo
è il mio destino”. E in accorato tono:
M’inginocchiai commosso e lo raccolsi
con gesto che mai fu più delicato,
per non sciuparne il calice scarlatto.
“La vita è un dono – dissi – e, se mi volsi
ad ammirarti, il fine è soddisfatto”.
La morte del canarino
ma un mutevole e fioco pigolio,
tra veglia e sonno, che mi rende inquieto
del moribondo. Il vecchio canarino,
col becco semiaperto e l’occhio spento,
or somiglia al balocco d’un bambino,
inerte sulla griglia… Forse un giorno
troveranno anche me, superflua cosa,
riverso a terra, immoto e disadorno:
destino di colui che ostenta ed osa
sfogliare i dì senza palpiti intorno.
Enzo Ramazzina