La metafora del videogioco, in cui il mostro abbattuto ossessivamente risorge in un mostro successivo e nel quale, aggiungiamo, la soluzione sta nel quasi impossibile superamento di tutti i livelli di difficoltà, forse nasconde il mostro dell’implosione dell’attuale sistema economico finanziario e sociale, per inefficacia di qualunque farmaco palliativo: non resta che staccare la presa o togliere le batterie che alimentano la partita perversa.
Può sembrare, questo, un frizzo fine a se stesso, e invece suggerisce l’unica soluzione possibile: spegnere, azzerare, cambiare “gioco”, ricominciare in maniera nuova e virtuosa.
La crescente finanziarizzazione dell’economia, che ha progressivamente svincolato la finanza dalla produzione, la progressiva globalizzazione dei mercati internazionali dei capitali e della moneta, la velocizzazione delle transazioni monetarie, creditizie e finanziarie legata allo sviluppo della tecnologia delle informazioni e della comunicazione, richiamano l’esigenza di regole, di comportamenti “eticamente corretti” sia sul piano individuale che su quello macroeconomico.
Posto che la moneta e il credito rivestono le funzioni basilari di favorire l’allocazione delle risorse e di fronteggiare il fattore tempo come rischio dell’attività economica, è necessario precisare che è sempre più avvertita l’esigenza di risolvere il problema etico superando la paradossale divaricazione fra l’ambito finanziario e quello economico, non solo perché regole, vincoli morali, comportamenti corretti vengono considerati un imperativo morale, ma perché sono, allo stesso tempo, imprescindibili agenti di crescita e di benessere. Basti considerare che un processo di sviluppo economico concentrato in poche aree può essere veloce e rapido nel breve periodo, ma nel lungo termine costituisce certamente un fattore di ritardo, per cui i costi della correzione degli squilibri diventano sempre più elevati.
Stabilito che la finanza non è ambito autonomo di speculazione, ma strumento essenziale dell’economia, la possibilità di ricondurne i tratti alla sua natura più genuina pare soprattutto fondarsi su presupposti valoriali, in vista di un’economia veramente a servizio dell’uomo e in grado di sopravvivere a se stessa. Perché troppo spesso, nell’esperienza concreta del capitalismo contemporaneo, finanza, credito, moneta prendono il posto delle risorse reali nell’interesse e nell’attenzione di tanti operatori economici e di molti studiosi, quando invece dovrebbero fornire gli strumenti per veicolarle.
Lo sviluppo e l’amplificazione dell’economia nella direzione dei mercati della moneta, del credito bancario, dei capitali finanziari o della borsa, dei cambi (vale a dire degli scambi fra monete di paesi diversi, le cosiddette valute o divise), fino ai mercati attuali – sempre più sofisticati e specializzati – dei vari titoli primari, secondari, derivati e sintetici, hanno contribuito in maniera determinante a creare l’abbaglio di una finanza che possa vivere di vita propria, dimentica del suo fondamentale ruolo di supporto: miraggio nei confronti del quale si pongono questioni tecniche e questioni etiche, di rilevanza effettiva, cioè, degli strumenti usati, nonché della loro corrispondenza ai presupposti etici che dovrebbero sempre guidare le azioni umane. Certo è che l’indebitamento dei Paesi in via di sviluppo, lo sfruttamento, la fragilità e l’instabilità delle ricchezze finanziarie, crisi e disoccupazione, sciacallaggio speculativo, accelerazione sfrenata della finanziarizzazione, a scapito soprattutto del reddito “reale”, profilano insieme uno scenario insostenibile.
A quanto detto si aggiunga che la tripartizione del mondo in tre grandi aree (dollaro, euro, yen) con il difficile dialogo tra i banchieri centrali delle aree medesime, di fronte all’agguerrita libertà dei movimenti speculativi rende incontrollati i mercati finanziari internazionali.
Questi fatti rendono sempre più evidente l’esigenza di una governance internazionale dei fenomeni finanziari, di regole atte a disciplinarli, di controlli in grado di identificare i segnali di pericolo. L’aspetto etico globale sul quale vale la pena di riflettere e di investire in termini progettuali, può essere descritto utilizzando la suggestiva immagine della piramide proposta da Prahalad, ovvero l’esistenza di un vertice ricco, con eccessi di liquidità e risparmio, che non comunica facilmente con la base della piramide formata dalla moltitudine dei più poveri per attivare autonomi processi di crescita. Struttura nella quale “ereticamente” Prahalad guarda ai quattro miliardi di persone che vivono con meno di cinque dollari al giorno, come alla più grande opportunità possibile. Questo non tanto per l’occasione di un’azione di marketing che vada a mobilitare una domanda improbabile, quanto per una strategia di sviluppo in grado di avviare una crescita autopropulsiva ed autocentrata, creando in tal modo “il mercato della base”.
La strategia nuova per favorire la nascita e lo sviluppo di un capitalismo imprenditoriale sarebbe quella di costituire dei “fondi etici” strutturati anche nella forma di “venture capital” che intervengono sul capitale di rischio delle imprese, accompagnando le fasi di start-up, svolgendo così un’attività di “business angels”. Questa strategia potrebbe costituire un potente “laboratorio di innovazione” per il sistema bancario e finanziario occidentale e una sfida la cui riuscita si baserebbe molto sulla capacità di questi nuovi organismi di tessere nuovi legami anche con gli operatori non tradizionali. Vi sono molti esperimenti nel settore dell’aiuto economico allo sviluppo in cui dalla pura e semplice donazione si è passati alla cultura dell’accesso, per giungere all’autonomia attraverso il microcredito. Come disse Alfred Hirschmann i fondi etici invitano a una salutare forma di sovvertimento rispetto alla “tirannia dei mercati finanziari”. Essi costituiscono un esempio del tentativo di riconciliare etica e finanza con un principio guida per cui questi veicoli di investimento devono scegliere un management che punti a riconciliare creazione di valore e norme etiche. Non va tuttavia frainteso il fatto che l’obiettivo primario di questi fondi è la performance, non l’altruismo, e che proprio da questa peculiarità scaturisce l’intuizione di un nuovo modello imprenditoriale capace di essere produttivo non solo per se stesso, ma per l’intero sistema economico, finanziario e sociale.
I programmi di sviluppo partecipativo apparvero già negli Anni Novanta, e cominciarono a prendere il posto dei programmi di assistenza: lo sviluppo del microcredito è da considerare uno degli aspetti chiave di questa nuova tendenza. La “partecipazione”, lo sviluppo del “capitale sociale” sono diventate progressivamente le parole chiave di queste nuove vie allo sviluppo economico, e il microcredito e la microfinanza hanno finito per diventare centrali in queste nuove strategie. L’entusiasmo per le nuove forme di finanza è basato sull’innovazione che queste sono in grado di promuovere, come per esempio i prestiti partecipativi e i contratti di prestito di gruppo, in cui il credito offerto congiuntamente ad un gruppo riduce l’asimmetria informativa così come il rischio di fallimento, stimolando meccanismi di sviluppo partecipativo e di cooperazione e competizione a base solidaristica. È noto che sul piano sociale gli esperimenti che la Grameen Bank introdusse sono innovazioni e soluzioni finanziarie a beneficio sia del prestatore che del debitore, ma soprattutto sul piano sociologico è emerso che dare un credito a una persona significa non solo prestare una somma di denaro, ma darle ”credito”, ovvero fiducia. La moneta diventa un’istituzione che lega il presente al futuro, creando un orizzonte di aspettative e le premesse per un migliore futuro.
L’auspicata riunificazione tra etica, economia e finanza trova una sua giustificazione anche nella validità di alcuni modelli di sviluppo che si caratterizzano per forte crescita associata a “democrazia economica”. Il termine “democrazia economica” al suo estremo comporterebbe un sistema economico in cui pari opportunità, formazione culturale e capacità determinassero diritti di cittadinanza tali da consentire ad ognuno di diventare imprenditore di se stesso fornendo una sintesi tra “diritti” e capacità secondo la terminologia di Rawls e di Sen. Questo tipo di democrazia economica consentirebbe anche il massimo di partecipazione e quindi dovrebbe essere alla base di uno sviluppo che nasce dal basso per cui la base della piramide, per usare la terminologia di Prahalad, potrebbe essere non solo fonte di consumo e quindi di benessere dal lato della domanda, ma anche artefice di una imprenditorialità diffusa in grado di imitare processi di crescita autopropulsiva sperimentati ad esempio nel nord-est italiano, nel Baden-Wuttemberg tedesco o nel Massachusetts statunitense, ma che si sono poi replicati in altre regioni del mondo.
A questo punto è chiaro che, considerata la crisi sempre più evidente dell’attuale sistema economico, finanziario e capitalistico che si accompagna ad una decadenza culturale e sociale, non è più pensabile affidarsi né al solo mercato, né al solo Stato, visti i loro “fallimenti”. La coniugazione tra efficienza e solidarietà, così come il ricongiungimento tra etica ed economia, non possono prescindere da un nuovo modello di business che concili diritti e responsabilità abbandonando la logica disumanizzante ed efficientistica, da un lato, e dall’altro la logica estrema solidaristica, che rischia di diventare puro assistenzialismo. È con queste premesse che nasce l’idea di attivare attraverso i meccanismi del mercato, e non certo contrastandoli, il concetto di Business Filantropico, inteso come:
- ricerca del massimo profitto, con orizzonti temporali non di breve e brevissimo termine, bensì proiettati sulla crescita di medio lungo periodo;
- orientamento di risorse finanziarie ed energie imprenditoriali verso settori ed aree particolarmente strategici per uno sviluppo unitario complessivo dell’intero sistema.
La strategia e l’ottica che guidano il Business Filantropico sono improntate alla valorizzazione delle risorse, in particolare quelle umane, da immettere in un circuito di sviluppo endogeno ed autopropulsivo, per ottenere il massimo dell’inclusione sociale ed economica delle parti coinvolte.
Per Business Filantropico intendiamo un nuovo modo di concepire l’attività imprenditoriale, per cui al tradizionale modello d’impresa che mira a produrre beni e servizi in vista del massimo profitto (business), si aggiunge come finalità il conseguimento del massimo benessere sociale possibile (filantropia). Nel Modello da noi teorizzato questi obiettivi sono raggiungibili solo in relazione a due principi chiave:
- Utilizzare la finanza (intesa quale strumento di allocazione delle risorse e non in un’ottica meramente speculativa) come modalità di afflusso di risorse verso settori e mercati ad elevate potenzialità e in grado di garantire sostenibilità allo sviluppo.
- Promuovere una cultura della responsabilità al fine di attivare capacità imprenditoriali, iniziative pubbliche e private in quella che Prahalad chiama la “base della piramide”, ovvero la parte Sud del Mondo, ricca di potenzialità, ma povera di iniziative e di strumenti.
Alla base di tutto questo sta la formula “win – win” [1], ovvero il paradigma del livello macro della co-competition, cioè di una competizione come forma di collaborazione, che sempre più dovrà guidare le reti d’impresa e non solo. Riteniamo infatti che il modello di Business Filantropico abbia come caratteristica fondamentale i seguenti due punti:
- la collaborazione tra pubblico e privato per dimostrare che finalità sociali e tornaconto individuale possono essere utilmente coordinati in funzione del bene comune
- il principio del decentramento delle responsabilità e quindi della partecipazione come strumento di democrazia economica, ma soprattutto come sfida per un innalzamento dal basso dello sviluppo e del benessere.
Quello che sembra soprattutto mancare alle iniziative prese in considerazione nella parte introduttiva ed a tutte quelle a loro simili, è un progetto di insieme, che le coordini e le convogli verso un flusso virtuoso, capace di autoalimentarsi, producendo vantaggi costanti e duraturi per l’insieme.
Amato Maria Bernabei
per S.S.C. Consulting e Progetto BTM
(cfr. www.consultingssc.com)