Il Festival della canzone, oggi dei predicatori, ancora una volta relega al margine il prodotto per cui fu creato e si propone con il suo solito inganno, con la sua ormai logora veste, camuffata da un elefantiaco pentagono di appuntamenti, dallo sfarzo stordente del palcoscenico, dal cicaleccio delle polemiche.
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In veste di sacerdoti del rito le ex Iene intonano l’ouverture officiando in onore del “grande poeta” (Benigni, per chi non l’avesse capito). Così, forse anche in omaggio al Santo Patrono (San Remo pare trasformazione attraverso il dialetto – San Reum’o’ – di San Romolo), si abbandonano alla celebrazione dell’assente ricorrendo ai suoi “versi” più alti, ovvero a una carrellata di battute a base di genitali, perché non si senta troppo la mancanza di una scurrilità gratuita e certamente pedagogica se può sempre godere di impunità… Luca e Paolo, in modo “originalissimo”, riprendono con disinvoltura le trite gag su Berlusconi (“pane” per i comici, adesso rimpianto) e la crassa modalità del clown toscano, che l’orfano Festival 2012 non può non “commemorare”, elencando gli innumerevoli appellativi del pene e della vulva e intercalando con merda, cazzi e coglioni (la mia non è indulgenza alla sboccata licenziosità, ma cronaca) la prolissa e poco divertente apertura.
Per fortuna la manifestazione canora comincia: la porta si schiude alla… musica e ai testi “sublimi” della ormai troppo anziana (62 anni, non proprio ben portati), rugosa kermesse ligure. Si avvicendano branetti della durata di qualche minuto, che, bontà sua, Carlotta Tedeschi trova “belle canzoni” (ma quali saranno i parametri di valutazione di certi critici?), a nostro avviso solita merce modesta per un mercato che potrà premiare o deludere, ma che comunque non potrà che giovarsi di una pallida esposizione per palati facili, fin da subito addormentati da un incantesimo di ipnotici effetti di scena.
Non molto spazio, e la rassegna di canzoni è già finita: un bombardamento annuncia il pulpito e dai corpi falcidiati “resuscita” la figura dell’evangelizzatore di turno…
Un tempo lo spettacolo del Festival della riviera dei fiori era sobrio di scenografia – probabil-mente non aveva bisogno del chiasso delle luci, dei colori, degli effetti ottici ed acustici per mascherarsi -, laboratorio di canzoni che, non volendo presuntuosamente oltrepassare i limiti della loro natura, sconfinando in messaggi morali, sociali, politici, religiosi, avevano la dignità e la piacevolezza di un frammento di parole in musica vólto a sottolineare sentimenti, ad accompagnare il nascere e il morire degli amori, ad accentuare un bisogno di memoria e di nostalgia, ad ancorare il cuore ed il pensiero a un’esperienza indimenticabile, a diventare melodie che una mattina, chissà perché, s’infilano nell’orecchio e diventano il suono, il ritmo, e la gradevole “ossessione” di un’intera giornata.
Un tempo lo spettacolo, radiofonico e televisivo in genere, era divertito da quadretti comici, da spassose trovate, da ammiccamenti pruriginosi, o pettegoli, o satirici – senza invadenze offensive o triviali -, era allietato da intelligenza comica, insomma, capace di felici amenità, amabili e svaganti; oggi si è trasformato in occasione distorta di propaganda, di ammaestramento, di docenze, di sermoni, di invettive, affidati a personaggi “fuori luogo”, comici, cantanti e simili, che si improvvisano professori, esegeti, santoni, cui il circo mediatico accorda complicità e credibilità per interessi, nemmeno a dirlo, di audience e di denaro, con un deterioramento inevitabile della qualità e della sostanza stessa dello spettacolo.
Il rammarico non serve a nulla.
Rimane lo sconcerto di chi, avendo spento da anni il televisore, lo accende per curiosare nelle pieghe di un evento antico, sperando contro ogni logica di rintracciarvi qualche orma del passato, e si rende conto che veramente non c’è nulla che il tempo, inesorabilmente, non distrugga.
Il Festival della canzone, oggi dei predicatori, ancora una volta relega al margine il prodotto per cui fu creato e si propone con il suo solito inganno, con la sua ormai logora veste, camuffata da un elefantiaco pentagono di appuntamenti, dallo sfarzo stordente del palcoscenico, dal cicaleccio delle polemiche.
Amato Maria Bernabei