“Sangue chiama sangue”, afferma il rettore magnifico della Pontificia Università Lateranense, Enrico Dal Covolo, intervistato dal direttore di Radio Uno Antonio Preziosi, commentando le recenti violenze dei Black Block a Roma.
Sangue chiama sangue è però un aforisma che, più che essere riferito a un episodio contingente, ben si adatta ad ergersi come ammonimento per l’intera società contemporanea.
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Un moto ad altro moto sempre chiama
quando nella catena delle sfere
urtando si propone e si reclama;
di rivalsa in rivalsa non ha sere
la ferita che ha pelle se ferisce,
perché non resta se non può vedere,
nel Fato e nell’istinto rinverdisce.
(Amato Maria Bernabei, Mythos, Il Mito di Oreste, Marsilio Editori, Venezia, p. 103, vv. 70-76)
«Un movimento provoca l’altro: da morte a morte, da sangue a sangue, di vendetta in vendetta, come le bilie che si urtano si comunicano all’infinito il movimento; di rivalsa in rivalsa non può sanarsi la ferita che cerca di guarire ferendo a sua volta, la ferita che “rifà la pelle” solo ferendo, perché non può arrestarsi (non ha sere) un processo che non è capace di vedere, nella cecità del Fato ineluttabile e dell’istinto, in cui sempre rinverdisce».
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È facile, e perfino sciocco e demagogico, sentenziare sulla violenza solo quando per qualche fessura il suo muso ruggisce e possiamo accorgerci della sua presenza.
La violenza permea la sostanza stessa del nostro sistema economico e sociale e perfino della nostra natura. Se è vero, almeno, che la nostra indole e i limitati filtri di cui disponiamo, già nell’esperienza della realtà condizionano la nostra conoscenza, coartandola verso schemi riduttivi e spesso dannosi, e orientando i comportamenti che da tale conoscenza “coatta” scaturiscono.
È vero che per definizione la violenza è “un’azione volontaria, esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà”, (Devoto) ma è altrettanto vero che in senso lato si possono considerare violenti qualunque strumento, ogni agente, qualsiasi forza che siano per noi costrittivi, non rispettosi dunque della nostra volontà. Perciò sono violente tutte le manifestazioni dell’uomo che arrechino danno all’uomo, a sé come ad altri: la guerra, il colonialismo, l’inquinamento, l’autoritarismo, la permissività, la deforestazione, il monopolio, la gestione trascurata della cosa pubblica, l’arrivismo, l’accaparramento, l’affetto ingerente, l’elusione di una responsabilità educativa, il mancato rispetto dell’alterità, insomma tutte le forme assortite dell’agire umano, in questo contesto volutamente còlte in disordine, che siano mosse a scapito dell’uomo, in un modo o nell’altro, in una misura o nell’altra.
Il seme della violenza è nell’uomo.
Egli lo porta con sé connaturato, quasi un indispensabile patrimonio nella lotta per vivere.
Paradossalmente la violenza è naturale: il dinamismo universale scaturisce da una continua sopraffazione. Tutto ciò che si modifica è perennemente soggetto a un processo di distruzione; e poiché al movimento nulla si sottrae, niente può eludere l’oscura forza trasformatrice che violenta l’essere.
Questo meccanismo ha comunque un aspetto di necessità che non permette di identificarlo come illegittimo o immorale.
Evidentemente il problema si pone per l’uomo laddove l’istinto si esprime facendo appello alle risorse della ragione, in una sorta di incestuoso rapporto che genera mostri.
Il termine violenza fa etimologicamente riferimento alle parole latine “vis” e “vir”: la prima ha la duplice accezione di forza e di volontà (vis vuol dire infatti anche “tu vuoi”), e sta dunque ad indicare ogni atto volontario coercitivo nei confronti degli altrui desideri; la seconda sembra connotare l’altra come attributo essenzialmente virile: ma si vedrà che nelle varie forme la violenza non ha genere (o se mai ne ha tre, declinata ora al maschile, talvolta al femminile, tal altra al neutro), per quanto il lemma sia femminile. La terminazione -ulentus indica eccesso (come in opulento o virulento), dunque assegna ai concetti espressi da vis e vir una misura sproporzionata.
Il seme della violenza è nell’uomo; ma solo la ragione può fecondarlo al punto da snaturarne il senso e la funzione, al punto da partorire una lucida e meditante volontà di sopruso per il sopruso.
Unicamente in questa prospettiva la violenza acquista precisi contorni negativi e diviene immorale e perciò deprecabile.
Il chicco di grandine che urta con impeto un germoglio e lo inaridisce, è solo ciecamente spinto, non è malvagio. Lo è invece l’assassino. L’omicida che sceglie, aspetta e colpisce la sua vittima, è un impasto di oscura aggressività e di limpida consapevolezza (salvo che non sia spinto dalla follia), un essere che compie con avvertenza piena un gesto non necessario, ma voluto, il cui scopo è quello di un vantaggio calcolato, qualunque esso sia.
Naturalmente l’immoralità non va qui intesa in senso religioso, ma ancora una volta semantico, come negazione, cioè, della consuetudine acquisita (mos, dalla radice mâ– misurare, quasi a suggerire la misura delle azioni, la regola) e per questo considerata buona. Ogni costrizione lede l’inviolabile principio della libertà individuale e contraddice a precise “norme di costume”, quelle che sono alla base della convivenza, che la permettono e la regolano.
La nostra società sembra, per caratteristiche intrinseche, un campo particolarmente fertile al proliferare della lucida violenza. Essa è infatti la schietta espressione di un sistema economico che dispone di tutti gli ingredienti per generare ed alimentare l’uso volontario della sopraffazione. Il consumismo esige vittime, come un orco antico. Nei denti dei suoi ingranaggi sgretola sentimenti, valori, ideali, ma anche protagonisti, comprimari e comparse di una farsa grandiosa e, al fondo, squallida.
Il consumismo è monocorde, insopportabile, alienante. Nella sua anima non c’è fase, non c’è direzione, non c’è dimensione che non attenga al profitto. La pressione dei mezzi di cui si serve è martellante, ossessiona. Nel fragore e tra le scintille di mille fuochi fatui la ragione infrollisce, è diluita, si appanna: cosi più facilmente l’istinto prende il sopravvento e la guida, fino a schiavizzarla.
Si moltiplica la “consapevole follia”, in forme diverse, ma tutte riconducibili ad una stessa radice. Il furto, la rapina, il sequestro, il ricatto; il plagio, lo stupro, il sopruso psicologico, morale, ideologico, politico; ogni azione intesa ad orientare ad ogni costo la coscienza e la volontà, ad annullare l’uomo nella mente e nel corpo, è fomentata dalla logica insana che è alla base del nostro modo di produzione.
Dove domina l’antica smania mai sopita: avere, oltre ogni limite ed oltre ogni costo. Nemmeno è nuovo il mezzo per conseguire lo scopo: la violenza, appunto. La quale sa vestire panni mimetici e garbati e sorride da una maschera allettante, ma sortisce effetti peggiori del segno fisico, e per giunta epidemici. La violenza oggi corrode l’anima, il pensiero. Distorce i contorni reali, annebbiandoli. Crea miraggi per i quali le masse narcotizzate e disorientate sacrificano quanto hanno di più prezioso: il senso critico, la volontà, la dignità. Non c’è altro scopo, non c’è altro mezzo, non c’è altro valore che il denaro.
Accendi il televisore! Ed ecco la sintesi e l’analisi di un’umanità in disfacimento! Tutto vive sotto il segno della vendita e del profitto; l’unica felicità è possedere. Tutto è pubblicizzato, tutto è sponsorizzato, scorrono fiumi di quiz, concorsi, schedine. Beato chi vince! I milioni sono il Bene Supremo dei tempi nuovi. E purtroppo è davvero tutto in vendita: sicché danzano sullo schermo decine di vili figure, schiave del guadagno, che mentono e sanno di mentire, che prestano la lingua al migliore offerente, che sconvolgono i parametri del valore, per cui diviene bello il brutto, grande il piccolo, cólto l’incólto, straordinario l’ordinario, geniale la mediocrità, lecito l’illecito…
Che dire, se questa è la crema degli intelletti, se questi sono i mèntori che guidano le folle? Quale speranza potrà mai allignare in un terreno cosi devastato?
Sangue chiama sangue. Che ci si può aspettare dalle vittime di un sistema così violento se non che reagiscano con l’uso della violenza? Il problema non è quindi lo stadio che ribolle di ultras, l’attentato terroristico, l’intrusione dei facinorosi Black Block in una pacifica manife- stazione, quanto invece la terapia da somministrare alla patologia del sistema per giungere alla sua guarigione.
Amato Maria Bernabei
Apri e salva: La violenza dalla violenza
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