BENIGNI E UN’INVENZIONE DI DANTE
Iniziamo una nuova rubrica, che può andare a braccetto con “la divulgazione dell’ignoranza”: in questo caso isoliamo però qualche luminosa dimostrazione dell’imbarbarimento dei protagonisti della cultura contemporanea e, dal momento che altro non possiamo fare, esprimiamo a parole tutto lo scherno e il disprezzo che questi maestri dell’asineria abbondantemente meritano.
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Nemmeno a dirlo… cominciamo dal sette volte ‘decorato con Laurea’ Roberto Benigni, alfiere di una “genia di geni” fasulli che strombazzano cognizioni che non hanno, e sghignazziamo a volontà sulla sua improponibile preparazione letteraria e su tutta la schiera di ben pensanti che se ne fanno mallevadori. Corbellerie il “grande dantista” ha disseminato per tutta Italia (e non solo) come un tempo si spargevano di petali le vie delle processioni del Corpus Domini: ma ce ne siamo occupati in ‘schede dedicate’ che chiunque voglia può consultare negli archivi di questo stesso sito. Ora peschiamo uno sproposito a caso, particolarmente risibile e frutto di una sbrigativa lettura di qualche nota, non meglio investigata, di un qualche commento alla Commedia: per preparare il suo spettacolino su Dante volete che Benigni frequentasse il Liceo Classico o la Facoltà di Lettere? Non è mica idiota come quegli studenti che trascorrono anni sui libri per conseguire una Laurea? Di Lauree in Lettere, per le sue affrettate consultazioni e le sue indecorose disquisizioni, a Benigni ne hanno conferite ben tre! Bisogna poi dire che gli studenti, purtroppo anche i più seri, devono gravare sui bilanci familiari in modo non indifferente, mentre il comico toscano è stato pagato milioni di Euro.
Non c’è che dire: alto esempio educativo.
Dicevamo del ridicolo sproposito. Affermava Benigni in una delle sue buffonesche e irriverenti esegesi: ” Se altri nol niega vuol dire se Dio vuole, ma all’Inferno Dio non si può nnominare. La parola Dio non uscirebbe dalla bocca: è un’invenzione dantesca bellissima, no? Scioè la Perfezione, il Bene Assoluto nel Regno del male sscardì, ci sarebbe un terremoto, quindi uno vuol dire Dio all’Inferno, non gli viene… isce Ddi pf pfe, non gli viene niente!”.
Si dà il caso però che, lasciando da parte gli altri possibili esempi utili a smontare una tesi ignorante del genere, nel XXV Canto dell’Inferno, ai versi 2-3, leggiamo:
le mani alzò con amendue le fiche, / gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!»
Il ladro Vanni Fucci, che in una notte del carnevale del 1293 pare abbia saccheggiato il tesoro della Cappella di San Giacomo, nel Duomo di Pistoia (Natalino Sapegno, Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, La Nuova Italia, 1986, p. 276, nota 125), costretto per contrappasso, nella settima bolgia, a correre fra i serpenti e a subire penose trasformazioni, non solo nomina Dio, ma lo bestemmia, rivolgendosi a Lui con un gesto osceno di scherno, ovvero “facendo le fiche”, un atto oltraggioso delle braccia protese contro l’oltraggiato, con i pugni chiusi e il pollice sporgente tra l’indice e il medio, che sembra fosse molto in uso tra i Pistoiesi (Carlo Dragone, La Divina Commedia, Inferno, Edizioni San Paolo, 1987, p. 290, nota 2).
È evidente che lo sconfinato cultore dell’Alighieri, Roberto Benigni, nemmeno sa dell’esistenza di questo Canto, altrimenti non avrebbe mai parlato dell'”invenzione dantesca bellissima”….
Come si può presumere di esibirsi in concerto (parliamo di quelli veri, dove si eseguono Mozart e Bach, non dei palcoscenici dei rockettari da strapazzo) riuscendo appena a strimpellare “Per Elisa”? È quello che pretende Benigni, che avendo imparato a memoria (e male) qualche Canto della Commedia e avendo letto da qualche parte una parafrasi di un po’ di versi danteschi, si improvvisa esegeta a costi di diamante.
Una vergogna.
Perché ci si renda conto dell’incompetenza di Benigni, della sua orribile lingua italiana e delle sue idee confuse, rileggiamo e completiamo il passo già riportato, aggiungendo il documento sonoro:”Se altri nol niega vuol dire se Dio vuole, ma all’Inferno Dio non si può nnominare. La parola Dio non uscirebbe dalla bocca: è un’invenzione dantesca bellissima, no? Scioè la Perfezione, il Bene Assoluto nel Regno del male sscardi, ci sarebbe un terremoto, quindi uno vuol dire Dio all’Inferno, non gli viene… isce Ddi pf pfe, non gli viene niente! Quindi se altri nol niega, e disce o anime affannate, affannate vuol dire, nel Medioevo aveva un senso profondo, l’affanno delle passioni, (?) quando siamo presi dalle passioni, c’è come un peso: Sant’Agostino disce: “Mio amore, mio pesoo! Da tte sono portato, dovunque sono portato”. [1] Si disce no, poi ci si ricasca nella passione, basta, eh! E poi ci si ricasca, e segu, è un peso, è un affanno, è un affanno che cci fa vvivere, e ce ci, e che però è un peso, [2] e usa propo la parola che… loro lo sentono viscino: o anime affannate… E… vediamo se loro vanno a parlare da llui o nno. Sentite questa tersina che anche per chi vvuole, a parte che ci ha mmesso dentro tutte le lettere dell’alfabeto, [3] ma è un celeberrima”.
Ascolta: invenzione bellissima
Amato Maria Bernabei
Apri e salva: Le cretinate sono come le ciliegie 01
[1] Clamorosa conseguenza di una preparazione spicciola e sfrontata! Che fraintendimento grossolano! Sant’Agostino non si riferisce assolutamente alla passione amorosa, oggetto della disamina del Professor Benigni, né tantomeno dice di avvertirne il peso angosciante! Egli afferma proprio tutt’altro, perché parla di amor erga Deum: “Dio mio, restituiscimi te stesso. Io ti amo. Se così è poco, fammi amare più forte” (Confessioni, XIII, 8,9) e spiega che: “Ogni corpo a motivo del suo peso tende al luogo che gli è proprio. Un peso non trascina soltanto al basso, ma al luogo che gli è proprio. Il fuoco tende verso l’alto, la pietra verso il basso, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. L’olio versato dentro l’acqua s’innalza sopra l’acqua, l’acqua versata sopra l’olio s’immerge sotto l’olio, spinti entrambi dal loro peso a cercare il loro luogo. Fuori dell’ordine regna l’inquietudine, nell’ordine la quiete. Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto” (quindi “vado”, non sono portato). (Sant’Agostino, Confessioni, XIII, 9,10). Chi ha letto attentamente ha capito che l’interpretazione di Benigni è ridicola e crassa.
[2] Ma che cosa dice? Gira, gira, gira sempre intorno allo stesso concetto senza esprimere nulla di importante e perfino di sensato: insomma, o anime affannate significa soltanto: o anime straziate dal castigo, sbattute dalla tormenta, venite a parlare con noi se nessuno lo impedisce, se Dio vi concede solo per poco la sospensione del supplizio (proprio in rapporto a questa deroga noi vediamo in “affannate” il riferimento alla tortura implacabile della punizione, molto più che il richiamo alla passione). Siamo convinti di questo anche perché in Dante prevale, per affannate, il significato di “tormentate”, nonostante qualcuno abbia osservato che “affanno è un termine della poesia provenzale che designava anche l’angoscia d’amore” e che quindi è probabile che “in quell’affannate il poeta abbia voluto includere un riferimento” alla passione dei due amanti. (La citazione è tratta da A.Russo-E.Schiavina, La Divina Commedia, Zanichelli, Bologna, 1971, pag. 35).
[3] Sarà una deformazione umanistica, ma commenti del genere per noi hanno del triviale!