“Per comprendere la figura e l’opera di Federico II, sia in campo culturale che politico, occorre innanzi tutto tenere presente la profonda influenza che ebbe su di lui l’educazione ricevuta alla corte papale di Innocenzo III. Oltre alle normali esercitazioni fisiche e all’istruzione militare propria del suo rango, Federico ricevette una vastissima educazione umanistica

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Premessa:

L’ambiente culturale della “Magna Curia”

“Per comprendere la figura e l’opera di Federico II, sia in campo culturale che politico, occorre innanzi tutto tenere presente la profonda influenza che ebbe su di lui l’educazione ricevuta alla corte papale di Innocenzo III.

Oltre alle normali esercitazioni fisiche e all’istruzione militare propria del suo rango, Federico ricevette una vastissima educazione umanistica. Sotto la guida di valenti maestri apprese la lingua latina; conobbe anche il provenzale e la lingua francese, che era stata la lingua ufficiale della corte normanna, mentre non poteva certo ignorare il tedesco, quale figlio di Enrico VI. Pare che conoscesse anche il greco, l’arabo e forse anche l’ebraico. Questa vasta cultura fu resa possibile sia dalla valentìa dei suoi educatori, sia dalla intelligenza eccezionale e dall’avidità di sapere del giovane principe. Questo spiega il motivo per cui, quando pose la sua dimora a Palermo, accolse a corte una schiera di dotti e di artisti, senza distinzione di lingua, religione, razza. Di tutti questi dotti egli fu il protettore, il collaboratore e il discepolo.

Già nei primi anni del suo regno, quando solennemente incoronato imperatore in Roma da papa Onorio III, mosse verso la Sicilia, egli intraprese una profonda trasformazione politica ed economica, per creare uno Stato unitario ed economicamente florido. Basterebbe ricordare la promulgazione di una vasta raccolta di leggi, chiamata “Costituzioni melfitane”, che riesumavano e mettevano in vigore antiche leggi romane, che davano allo Stato un saldo ordinamento giuridico e sociale. L’edificio statale creato da Federico fu mantenuto saldo dalla collaborazione di un vasto numero di dotti: ricordiamo che nella primavera del 1224 l’imperatore aveva fondato l’Università di Napoli, che comprendeva tutte le facoltà, esclusa la medicina, e che in breve tempo poteva vantare i migliori maestri del Regno, specialmente nella categoria dei notari e dei giuristi. Questa Università fu a lungo amministrata e diretta da Pier delle Vigne, uomo di lettere, che, come dice Dante, teneva veramente “ambo le chiavi del cor di Federico”. Infatti quest’uomo ebbe nella vita dell’Imperatore e nello sviluppo dello stesso impero un ruolo di estrema importanza. Cultore della lingua latina, portatore del pensiero imperiale e compilatore delle leggi Federiciane, stimato e riverito da tutti, godette di onori e di privilegi immensi, che la sua opera di cultura e di insegnamento indubbiamente meritarono Forse proprio questa sua posizione di privilegio mosse l’invidia di alcuni cortigiani, che osarono accusarlo di lesa maestà e di aver partecipato ad un attentato contro il sovrano, il quale lo fece arrestare; e Pietro se ne rammaricò tanto che si uccise in carcere.

Naturalmente tutto il movimento di riforme e di cultura fu possibile sia per la grande liberalità, sia per l’amore della cultura e dell’arte che erano in Federico, il quale sempre promosse ed appoggiò le iniziative dei suoi funzionari. Oltre a far istruire i giovani che frequentavano la sua corte e l’università, Federico volle raccogliere nella sua magnifica reggia di Palermo poeti e artisti di ogni parte del mondo.

Due furono i circoli di dotti che ruotavano attorno a Federico:

                – quello dei filosofi e scienziati arabo aristotelici, e

                – quello dei letterati e poeti.

Nel primo venivano studiate astronomia, medicina, astrologia e filosofia, attraverso l’esame e la traduzione in latino di trattati scientifici greci ed arabi.

Si distinse in questo campo e raggiunse rapidamente una grande notorietà lo scienziato Michele Scoto, uno dei maggiori dell’occidente, mentre maestro Teodoro ci appare sotto le mutevoli vesti di filosofo, astrologo, matematico e medico. È lecito inoltre pensare che, oltre a questi dotti più o meno conosciuti, molti altri siano vissuti a corte; tutti costoro furono uno strumento prezioso per la diffusione della scienza e lo sviluppo della cultura.

L’altro circolo fu quello letterario e poetico, in latino e in volgare. I letterati latini della Magna Curia erano giudici, notai, funzionari della cancelleria imperiale, originari della Campania e delle regioni vicine; molti di loro avevano studiato a Bologna, con la quale i letterati siciliani ebbero moltissimi contatti. Però tutti gli influssi latini, provenzali, greci, impartiti da Bologna, trovarono nell’ambiente della vita pubblica siciliana un altro significato e un altro tono.

Spicca soprattutto la lingua di Pier delle Vigne, per la sua forza espressiva e lo splendore formale; con lui il latino diventa lingua ufficiale dell’Impero, tornando così a svolgere un ruolo di primaria importanza.

Accanto alla figura affascinante di Pier delle Vigne, che primeggiava nella filosofia, nel diritto e nelle lettere, parecchi altri furono gli scrittori latini del circolo imperiale, molti dei quali discepoli di Pier delle Vigne, che composero scritti politici, morali, estetici e letterari.

Ma l’aspetto più positivo della Magna Curia fu l’impulso da essa dato allo sviluppo del volgare e la creazione della prima scuola poetica d’arte della Penisola.

 Notevole fu l’influsso provenzale sullo sviluppo della poesia siciliana, dovuto anche al matrimonio, avvenuto nel 1209, tra Federico e Costanza d’Aragona, la quale giunse a Palermo con un numeroso seguito, tra cui non potevano mancare i poeti. In seguito i contatti tra la cultura occitanica e la corte di Federico aumentarono, sia per il contributo dato da Bologna, sia per i frequenti soggiorni nell’Italia settentrionale di Federico e del suo seguito. Gli elementi provenzali, trasportati in ambiente diverso, si trasformarono e mutarono, acquistando in alcuni poeti maggiore passionalità e più vivo realismo, soprattutto quando si ispirarono alla vita e ai sentimenti popolari.

Fra coloro che più si allontanarono dalle forme e dai motivi provenzali furono Pier delle Vigne, Giacomo da Lentini, presunto inventore del sonetto, Giacomino Pugliese, Odo delle Colonne e Rinaldo d’Aquino.

È comunque indubbio che Federico II e la sua Magna Curia ebbero il grande merito di aver dato inizio alle prime pagine della letteratura italiana nel campo della poesia amorosa d’arte; per cui l’imperatore svevo può veramente essere considerato il precursore dei grandi principi mecenati del Rinascimento” (A. Menetti, Temi critici di letteratura italiana, vol. I, pp. 31-33). 

                La scuola poetica siciliana

 

 

 

 

 

 

 

Federico II: “Stupor mundi

http://it.wikipedia.org/wiki/Federico_II_del_Sacro_Romano_Impero

 

“Si è in precedenza accennato alla costituzione, al Sud della Penisola, di un forte Stato unitario ad opera di Federico II: è alla sua corte ed a quella del figlio Manfredi che si realizza la prima concreta esperienza poetica in Italia.

A questo principe svevo, che precorre in qualche modo la figura del principe rinascimentale per il suo mecenatismo e per la sua azione di accentramento amministrativo, va il merito di aver creato a Palermo uno splendido centro culturale, nel quale venivano accolti, senza alcuna differenziazione di onori e di merito, filosofi e teologi, poeti e scienziati, medici ed astronomi, sia del mondo occidentale che orientale, il che equivale ad un quanto mai apprezzabile tentativo di organizzazione ed universalizzazione del sapere in senso laico.

Tale tentativo è riscontrabile anche nel campo più propriamente linguistico-letterario: non più un volgare regionale od isolano, ma un volgare ingentilito e raffinato che fosse degno di essere accolto a corte; non più una poesia ristretta all’ambito popolare o municipale, ma una poesia a carattere universalistico, regolata da norme e princìpi cortigiani ed aristocratici. E poiché la poesia provenzale costituiva ormai in tal senso un modello europeo, alla poesia provenzale si rifecero i poeti di quella che da Dante fu definita “scuola siciliana”. Sennonché questi, a differenza dei provenzali, non furono, come si direbbe oggi, poeti di professione, o trovatori, come si diceva allora, ma per la maggior parte funzionari di corte.

La materia del loro canto è solamente amorosa: l’omaggio di lodi del fedele alla sua donna non si stacca dal noto vassallaggio di tipo feudale d’oltralpe; la retorica personificazione nella donna di ogni perfezione muliebre domina in ogni lirica; l’artificio e l’impersonalità ne sono caratteri costanti, che tutto raffreddano, tutto scoloriscono nel solito gioco manieristico di rime, di concetti, di sottigliezze.

Si aggiunga che è possibile cogliere, sia pure in cantori isolati, la presenza della natura sentita in modo nuovo (il mare inondato di luce, fiori dai mille colori) e di un alito di spontaneità, le cui radici sono probabilmente da ricercare nella poesia popolare preesistente.

La scuola siciliana non ebbe un vero grande poeta che ne fosse il capo incontrastato: i verseggiatori furono numerosissimi, a cominciare dallo stesso Federico II e dal figlio Enzo, ma pochi riuscirono a liberarsi dalle fredde forme della convenzionalità. Jacopo da Lentini, detto anche semplicemente il “Notaro”, deve la sua notorietà alla creazione del sonetto; Giacomino Pugliese fu il poeta più aggraziato per colorito e sentimento; Pier della Vigna affidò a una nota canzone la sua speranza d’amore; Rinaldo d’Aquino rese schiettamente con semplicità di mezzi espressivi il dramma sentimentale di una donna che vede allontanarsi su una nave la “vita sua”. Un posto a se stante occupa Cielo d’Alcamo, un poeta non sprovvisto di cultura e d’ingegno, che nel suo “Contrasto” tenta volutamente di mascherare l’indubbia derivazione erudita con l’andamento realistico-popolare del verso”. (De Bernardi-Lanza-Barbero, Letteratura italiana, vol. I, pp. 16-17). 

Lettura I: MOTIVI E FORME DELLA POESIA SICILIANA

“Bisogna dire anche però che poeti “siciliani” sono in realtà poeti di tutte le parti d’Italia: la magna curia fu una specie di ideale convegno, e la corte stessa si trasferiva in varie parti della Penisola. Certo il modello provenzale per motivi di rapporti politici, è sempre dominante in questa scuola.

Dove non ci sono grandi individualità di poeti, il meglio che si possa fare è una rassegna dei motivi, dei moduli di quella poesia, avendo l’occhio ai poeti dello stilnovo, i quali, se furono originali rimatori, pure ereditarono forme e pensieri della precedente tradizione.

In genere per tutti i poeti della scuola siciliana nei rapporti fra donna e amante sono riprodotti i termini del vassallaggio feudale: la donna è riverita come altissima signora, la sua bellezza stessa è descritta in termini generali e convenzionali, specchio o fiore, stella mattutina; queste donne sono tutte uguali, e la mancanza di individualità porta alla ricerca dell’iperbole. L’amore di questi rimatori, conforme al modello provenzale, non è l’amore coniugale, ché anzi l’amore fra coniugi è presentato come un mancamento alle regole convenzionali della nuova cortesia amorosa. Il motivo delle virtù ispirate da amore sarà ripreso dagli stilnovisti; l’altro della discussione sull’essenza d’amore, sua origine ed effetti sull’uomo, pure dai bolognesi e dagli stilnovisti. I paragoni sono col fuoco, con la luce del sole, il cigno morente, la fenice, la tigre crudele; e luoghi comuni o personaggi mitologici o biblici, Assolonne, Salomone, Sansone, Alessandro, Pirame e Tisbe, Elena e Paride, e sovrattutto, Lancillotto del Lago, il cavaliere ideale dei romanzi di cavalleria.

Una particolare importanza la scuola siciliana ha per le forme metriche da essa elaborate. Prima la canzone, fatta di stanze o strofe di eguale struttura, spesso con una stanza più piccola alla fine, detta commiato, congedo, licenza, chiusa, o anche ritornello. Verso prevalente è l’endecasillabo, o il settenario e rispetto ai modelli provenzali sono innovatori per le rime, cambiandole da stanza a stanza. Anche il sonetto sembra si sia originato dall’isolamento di una stanza di canzone; però ebbe voga soprattutto in Toscana (N.B. il sonetto è un componimento di quattordici versi endecasillabi suddivisi in quattro strofe, due di quattro versi e due di tre, variamente, ma sempre geometricamente, legati da rime; n.d.c.). C’era poi il discordo, con versi brevissimi accostati arbitrariamente, probabilmente materia ritmica per canto e danze.

La lingua non è in genere uniforme, ma varia da rimatore a rimatore, più o meno ricca di elementi dialettali, dirozzata sull’esempio del latino, più o meno mescolata di forme francesi o provenzali. La notevole somiglianza col toscano si spiega da una parte con la maggiore somiglianza che i dialetti romanzi italiani ebbero un tempo fra loro rispetto ai nostri giorni, e con la toscanizzazione che quelle poesie subirono ad opera dei copisti toscani.

La prevalenza dell’argomento amoroso si spiega col fatto che al latino eran riservati i temi politici, dibattuti fra dotti. Dante stesso avrebbe voluto almeno in un primo tempo che il volgare fosse riservato solo alla poesia amatoria, per farsi intendere dalle donne: “Lo primo che cominciò a dire siccome poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, alla quale era malagevole ad intendere i versi latini. E questo è contro a coloro, che rimano sopra altra materia che amorosa; conciossiacosaché cotal modo di parlare fosse da principio trovato per dire d’Amore” (Vita Nuova, cap. XXV)”.

(L. Russo, Compendio storico della letteratura italiana, cap. III, D’Anna)

Lettura II:  I CARATTERI E LA LINGUA DELLA SCUOLA SICILIANA

 “Il fatto che la scuola siciliana nasca a una corte la caratterizza fortemente e ne spiega i tratti essenziali, in quanto essa nacque in modo diverso da tutta l’altra letteratura italiana delle origini, legata quasi tutta al Comune. Qui invece essa è un’attività aristocratica, opera di prìncipi e di funzionari di corte, i quali considerano l’esercizio della poesia come una sorta di passatempo elegante, quasi un complemento della loro attività mondana, una manifestazione in altre parole, della finezza della loro cultura, e un modo di mostrarsi degni della cerchia ristretta di cui, per nascita o per funzione, sono parte.

Questo spiega perché i siciliani mutuino i temi e i modi del loro poetare dalla poesia provenzale, vale a dire da una poesia schiettamente feudale, che aveva celebrato il “fino amore” o “l’amore cortese” risolvendo il sentimento amoroso in una sorta di “servizio d’amore” che l’uomo, “fedele” o “vassallo”, compieva a pro’ di “Madonna”, servendola con un rituale raffinato e complesso. I siciliani ripresero questa lirica, ma, riprendendola, le diedero l’impronta della diversa società in cui poetavano: essi infatti non avevano più quella specie di culto dell’amore e della poesia che avevano avuto i poeti provenzali, e la corte di Federico II, per quanto fosse una “corte”, cioè un ambiente di chiusa raffinatezza, era la corte moderna e laica di uno Stato burocratico e accentrato, non più uno di quei castelli feudali nei quali quei sentimenti di devozione cavalleresca alla donna, di sensualità depurata e raffinata, di elegante professionismo poetico avevano trovato una loro sede naturale.

Ne deriva che la poesia siciliana, trapiantando i temi feudali-provenzali in un mondo che la feudalità aveva ignorato o conosciuto in misura assai attenuata, spogliò quei temi di quanto di vissuto era in essi, pur nella loro consapevole letterarietà, per trasformarli in meri temi poetici, in un’alta e chiusa esercitazione letteraria che desse prestigio a chi la praticasse e che unisse tutti coloro che se ne facessero seguaci in una cerchia sola di spirituale solidarietà.

Si comprende, allora, come mai questa poesia sia elaborata e convenzionale al massimo, dato che in essa il poeta mirava non a effondere affetti o avvenimenti reali, ma solo a variare con virtuosismo sapiente una tematica fissa, dalle leggi precise. Ma appunto per questo, si direbbe, 

la poesia siciliana ebbe tanta  influenza sulle generazioni successive, in quanto diede l’esempio di una liricaaltamente e chiusamente letteraria,

che potesse facilmente affascinare quanti, in quel primo rigoglio impetuoso di cultura, miravano a una letteratura di aristocratica purezza.

La lingua fu, nel suo fondo, siciliana, ma di un siciliano “illustre”, modellato, oltre che sul latino, sulle altre lingue moderne di cultura, soprattutto sul provenzale; una lingua distillata, elegante, generica, che della sua origine ritenesse solo quel tanto che pareva essere non strettamente municipale, ma appartenente al patrimonio comune dei volgari italiani o romanzi A noi gli scritti dei siciliani sono pervenuti solo in manoscritti posteriori toscani, nei quali la lingua è stata fortemente toscanizzata dai copisti, fino al punto da alterare le rime. Tuttavia è possibile individuare sotto quella veste posteriore le forme primitive, nelle quali un siciliano depurato degli elementi e dei tratti più caratteristici si fonde con latinismi e provenzalismi dando luogo così a una lingua strettamente letteraria, che, appunto per questo suo carattere, poté influire sulla poesia toscana successiva, e, attraverso questa, su tutta la lirica d’arte italiana. A questa i siciliani consegnarono anche schemi metrici, soprattutto il sonetto, un componimento che appare già agli albori della poesia siciliana, di cui si ignora l’origine, e di cui si ritiene inventore Giacomo da Lentini.” (G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, cap. IV, Palumbo)

Lettura III: IL PROVENZALISMO DELLA SCUOLA SICILIANA

 “La poesia “siciliana” ripete fin troppo fedelmente i temi e le formule della lirica trobadorica.

L’amore vi è raffigurato come il “ligio omaggio” alla dama, rispetto alla quale l’amante è nella posizione di fedele vassallo. Alla dama, ornata di ogni pregio, va la lode dell’amante, che spera ansioso il guiderdone del suo leale servire; ma egli non si ribella e non protesta se per orgoglio la dama non accoglie l’omaggio; perché da amore può venire gioia così come dolore; e dolce, comunque, è il duol d’amore…

Tutti questi motivi consueti della lirica trobadorica sono tradotti dai siciliani, in una forma elaborata e tesa, ma per lo più scialba, per la monotonia dei modi espressivi che escludono, in generale, accenti personali e risentiti; se pure, per entro l’opera di quei verseggiatori, qualche spunto vivace sia dato di cogliere, qua e là; qualche immagine che traduce impressioni abbastanza vive, qualche tratto sapidamente realistico, qualche notazione naturalistica netta e rilevata.

Il trionfo del provenzalismo nell’ambiente della Magna Curia ha dato luogo a qualche difficoltà presso i critici della scuola positiva; per il fatto, ben noto, che nessun trovatore s’è spinto fin nel mezzogiorno italiano; il che poneva il problema dei tramiti per i quali il trovadorismo poteva essersi diffuso in ambienti meridionali. E se pur si era arrivati a stabilire che in rapporto con Federico II molti dei trovatori appaiono essere stati e che ai fatti dell’imperatore frequenti sono le allusioni nella tarda lirica occitanica sì che da alcuni si era arrivati a parlare di “trovatori idealmente raggruppati” intorno al grande sovrano, il problema tuttavia restava, dati i termini in cui i vecchi critici ponevano la questione della tradizione, della diffusione, della circolazione delle manifestazioni letterarie. …[Ma] il problema è insussistente; al mondo della poesia trobadorica i dotti letterati del circolo fridericiano s’accostano indipendentemente dai personali contatti dei trovatori con l’ambiente della Curia: ricercando essi, come accennavamo, attivamente i testi di quella poesia che è, ormai, in tutta Europa elemento essenziale della cultura.

Ad ogni modo, la poesia siciliana è poesia trobadorica in una lingua diversa da quella dei trovatori; così com’è poesia trobadorica in lingua francese o mediotedesca, quella dei poeti del circolo della Contessa di Champagne o dei minnesinger (=cantori d’amore: poeti lirici tedeschi dei secoli XII-XIII; n.d.c.).

Le origini della poesia d’arte volgare italiana -cioè le origini della tradizione letteraria italiana- sono provenzali: il che specialmente si riflette nel colorito vivamente provenzaleggiante della lingua poetica della prima scuola, che resta, pur nei vari e complessi svolgimenti della nostra storia linguistica, come elemento importante della lingua letteraria italiana.

Appunto per questo, il trobadorismo delle nostre origini letterarie è dato essenziale della nostra tradizione: perché è fatto non precario e fittizio e momentaneo, ma che resta valido e impone i suoi segni alla nostra lingua. I tratti provenzali della lingua della prima scuola son conservati dalla tradizione che pur, com’è noto, cancella o attenua -salvo che nella lingua in rima- molti tratti del volgare antico dei poeti siciliani (nei canzonieri, com’è risaputo, per effetto della tradizione la primitiva veste linguistica della poesia “siciliana” è profondamente modificata); e passano nella lingua poetica di Dante e del Petrarca, dai quali dipende tutta la nostra tradizione linguistica.” (A. Viscardi, La poesia trobadorica in Italia, in Letterature comparate, Marzorati)

Lettura IV: LA POESIA SICILIANA:  IL VALORE STORICO. LA LINGUA

 “Alla corte di Federico II in Sicilia nacque e si svolse la prima poesia d’arte in volgare, quella cioè che fu detta, secondo l’esempio di Dante, poesia siciliana. Mentre nell’Italia settentrionale e centrale il volgare fa le sue prove in una produzione religiosa, moraleggiante, sentenziosa o estatica, lirica o edificante, ma sempre ripugnante al compiacimento esclusivamente estetico, nella poesia siciliana invece si attua un programma letterario, si afferma una volontà aristocratica di creare una lingua e uno stile poetici da offrire come norma a quanti pratichino l’arte dei versi: si vuole dar convegno ai poeti di ogni terra italiana in un centro comune ove abbiano riconoscimento e applicazione le leggi di una forma raffinata e squisitamente artistica.

Ai poeti, s’è detto, di ogni terra italiana: ché l’appellativo di siciliana non dev’essere inteso in stretto senso geografico. Lo stesso Federico II non soggiornò in Sicilia se non saltuariamente: ma la corona di Sicilia che egli portò con franco splendore diede tanta grandezza alla sua corte, alla “magna curia”, che non è possibile immaginare la sua opera disgiunta dall’isola regale Ci fu insomma una sicilianità ideale che, in virtù della figura del Re e Imperatore e della sua impronta storicamente e intellettualmente memorabile, abbracciò tutta un’età delle nostre lettere. Segretari, giuristi, notai, capitani si raccolsero da ogni regione d’Italia in questa corte, e se qualcosa vi portarono di personale nella cultura, nel temperamento, nel linguaggio, molto più presero, quando si diedero a verseggiare, dall’ambiente della corte stessa Anche il fatto che a poetare s’inducessero tanti uomini di cultura sì, ma di attività pratica e riflessiva, suggerisce l’idea di una poesia trattata come una forma di eleganza aulica, di distinzione superiore: insomma un’attività più di stile che di fantasia: a chiamarla col suo nome, una convenzione. E tanto avvertì Dante in codesta poesia la tara del convenzionalismo, che qualificò siciliana, nel “De vulgari eloquentia”, tutta la poesia volgare precedente al suo tempo, accomunata appunto sotto l’accusa di stilismo artificioso, refrattario alla schietta ispirazione del cuore. E non era lontano dal vero quando accentrava in tal modo nella corte di Sicilia, nel “regale solium”, un movimento d’arte che lì aveva avuto, senza dubbio, il suo fulcro, che di lì aveva preso l’impronta e il mezzo espressivo, eguali per tutti i poeti conviventi alla corte di Federico e di Manfredi, se pur provenienti da varie regioni d’Italia, ed eguali perfino per quanti, senza mai aver conosciuto la Sicilia, in altre città e paesi avevano poetato secondo il tipo propagato dalla corte stessa: eguali finalmente, o poco mutati, negli epigoni della generazione posteriore, quella che, calato il sipario sul grande spettacolo della dinastia siciliana, era fiorita non più nell’isola, ma in lontane terre della penisola, specie in Toscana, a preparare, per via del proprio esaurimento, il sorgere del “dolce stil nuovo”.

Ecco perché rimane viva nel suo vero significato l’antica definizione che proclamava Dante il padre della poesia italiana. Prima di lui c’è come un Vecchio Testamento della nostra storia poetica: ma è un Vecchio Testamento senza Adamo e senza Mosè, e che presume -dicono i critici- un’altra età precedente di tentativi, di esperimenti progressivi a cui si era cimentato il nuovo idioma siciliano. La produzione di questa età arcaica della nostra poesia, se c’è stata veramente, è andata interamente perduta. Smarritosi poi nella calcolata, scaltra produzione della scuola, diremo così, siciliana il senso delle origini, non fa meraviglia che Dante emerga un giorno gigantesco nella sua figura di scopritore e che il senso delle origini ce lo dia lui, in quanto creò un mondo nuovo e grande di poesia, e insieme ci dia il senso della perfezione, in quanto riassunse in una sintesi potente la storia spirituale del Medioevo.

Eppure, considerando quei verseggiatori di Sicilia che attuarono primi in Italia un’intesa su un comune fondamento di cultura, di tecnica poetica, di concetti espressi e svolti con attenta cura di stile, considerando quei verseggiatori in cui la poesia autentica è così scarsa e il grande poeta rimane un pio desiderio sentiamo che attraverso il convenzionalismo e la monotonia delle loro liriche, arieggianti i modi e le frasi della poesia provenzale, essi rappresentano storicamente un momento importante della nostra storia letteraria.

Si è soliti, infatti, ricordare e glorificare i tre grandi Toscani del Trecento Dante avanti a tutti, come gli unificatori della nostra letteratura, la quale se pure impiegò, per varie ragioni, più di un secolo a riconoscersi tutta nel modello di quei creatori, poi non se ne liberò più, neppure quando ne contestava l’autorità. Ma l’opera dei Toscani del Trecento non fu il primo tentativo unificatore. Il primo era stato quello dei Siciliani del Duecento. S’è visto pi addietro che l’italiano Federico II tentò sul terreno politico di attuare una sintesi ricca di valori italiani, contro la quale si eressero, irriducibili, il particolarismo comunale e le ambizioni pontificie. Ora, se si pensa al suo amore per la cultura, alla folla di dotti di ogni scienza, di artisti, di musici, di letterati, che attirò e raccolse intorno a sé, il patrocinio che concesse ai poeti della sua corte ci può apparire come un elemento dello stesso suo programma politico e, diciamo pure, storico. Non pensiamo per questo che fosse il crollo della sua costruzione politica a portare con sé il fallimento di un disegno unitario poetico. La disgrazia della scuola siciliana fu un’altra: fu quella di non aver avuto un Dante Alighieri: i Danti, si sa, vengono al mondo quando e dove li manda Iddio. Senza contare che il movimento poetico siciliano era troppo aristocratico e ristretto per assumere un valore nazionale.

Del resto di un vero fallimento della scuola siciliana, di fronte alla storia letteraria, non è il caso di parlare. L’esempio di essa, anzi, poté assai sullo svolgimento della nostra poesia dell’ultimo Duecento e del primo Trecento. Anche quando le forme dei Siciliani, logorate dagli imitatori, provocarono la reazione del “dolce stil nuovo”, i seguaci della nuova scuola operarono in una direzione spiritualmente antitetica a quella dei loro predecessori, ma riprendendone l’esigenza di una norma comune, di un gusto raffinato, di un comune filtro stilistico attraverso il quale dovevano passare le ispirazioni individuali. Propositi e intenzioni nobilissime, le quali d’altra parte sono di quelle che valgono a mantenere l’arte in un’aria di serra, buona alle decorose esercitazioni dei minori. Il “dolce stil nuovo” in tanto vale, in quanto ne emergono con fresca prepotenza temperamenti come Guido Cavalcanti e un genio come Dante, rompendo la convenzione in cui si crogiolavano i soliti mediocri, i consueti spiriti cenacolari usi a specchiarsi nella loro frigidezza accademica, negati a ogni arte grande e generosamente umana. Il grande messaggio italiano non lo poteva dare all’Italia il gusto levigato e inerte dei mediocri impeccabili, bensì soltanto la potenza dell’arte di Dante, che superava i limiti della scuola e creava un nuovo mondo di poesia. E fu per qualche tempo messaggio contestato e discusso, per la stessa irruenza e novità del suo accento, finché ebbe a trionfare nei secoli: i quali, ricercando a ritroso nel tempo una paternità poetica indiscutibile e riassuntiva, si fermarono a Dante, perché di là da lui nessuno trovarono che potesse incarnarla con l’autorità necessaria. Giacché a prendere sotto le proprie ali una serie di generazioni, con le loro ansie, le loro fedi, le loro sofferenze, le esaltazioni, le vittorie, i martirii, non basta neppure che una poesia sia grande: occorre che essa sia prima di tutto umana: e nessuna fu più umana di quella di Dante.

E tuttavia, ripetiamo, anche Dante dovette qualcosa, indirettamente, al gusto dell’invisa scuola siciliana.

Sulla quale non mancano, com’è ovvio, problemi dibattuti ampiamente dai critici ma non mancano egualmente soluzioni ormai abbastanza pacifiche. Si è disputato per esempio, sulla lingua in cui è scritta questa poesia: lingua, si è ora d’accordo, convenzionale, astratta dall’uso vivo; lingua peraltro di fondo siciliano, ma nobilitata, stilizzata con cura schizzinosa, in modo da escluderne le espressioni troppo plebee, e piuttosto aperta a qualche prestito latino a titolo di araldica ascendenza; e anche si screziava, codesto siciliano, di modi tolti ad altri dialetti (che potevano essere i dialetti originari dei singoli poeti, o altri conosciuti nei loro viaggi per le varie terre d’Italia); oppure, nel togliere concetti ai trovatori provenzali, ne confiscava giri di frasi e atteggiamenti verbali. Certo una lingua combinata con tanta circospezione, quasi seguendo una ricetta aulica ed esoterica, ha troppo aria di museo per apparire munita di tutti i requisiti necessari a una piena lingua poetica. Eppure si può cogliere, pur entro il cerchio rigido di codeste forme idiomatiche eretto come un limite di stile ma anche come una barriera concettuale, qualche possibilità di movimento -di movimento, badiamo, non di volo-, che ai migliori della scuola dà modo di esprimere una propria vita lirica. Sono quei casi in cui la lingua convenzionale riesce a diventare lingua artistica, cioè individuale, e allora può darsi che perfino le stesse parole di quella convenzione linguistica acquistino, qua e là, valori nuovi. Il discorso artistico, infatti, risulta dei valori personali che assumono gli elementi, anche impersonali, del linguaggio. E chi è del mestiere queste cose le capisce facilmente.” (A. Pompeati, Storia della letteratura italiana, vol. I, pp. 195-198).

Amato Maria Bernabei

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