Le canzoni dei “grandi” non mi sono sembrate tanto grandi: non ce n’è una che salverei. Aver sentito cantare, sia pure in modalità “gita scolastica”, Nel blu dipinto di blu nel corso della serata finale del Festival, ha rimarcato, se ce ne fosse stato bisogno, la distanza che c’è fra l’arte e il mestiere, e fra i prodotti del talento e quelli del mercato.
Hanno vinto:
- una gestualità un po’ spastica,
- una vocalità roca e dall’intonazione imperfetta (come molte di questi tempi)
- un testo di quelli cosiddetti “poetici”, dall’iterazione ossessiva, fatta per entrare nel cervello come un “lavaggio” (chiamami ancora amore o sempre amore più di venti volte), anche se lo “sputo di universo” arriva volgarmente nell’occhio e non chiarisce come sia possibile far sorridere le idee e amare dentro uno schizzo di saliva,
- una linea melodica monotona, talvolta lagnosa, specialmente nell’interpretazione,
- un intento, senza esito felice, di emozionare.
Insomma, la canzone vincitrice non mi piace, non la inserirei mai nella mia collezione di brani da ascoltare. Caro Vecchioni, non ti ho capito… o forse qualcosa non hai capito tu: vincere non basta.
Né mi convince, ovviamente, il plauso tributato a questo “brano d’autore”.
Non posso non avere perplessità su chi, per valutare una canzone, che dovrebbe essere fondamentalmente un prodotto musicale, si appella a mille argomentazioni che musicali non sono. Ci sono diversi brani di De Andrè, di Gaber, di Battiato, di De Gregori e di tutti quegli autori che vengono considerati “impegnati” (Vecchioni non è nemmeno uno di questi), che sono davvero di poco valore. Una canzone deve legarsi, con un pregio fondamentalmente musicale, a certe emozioni, a certi peculiari momenti della vita degni di essere evocati: deve saperli sottolineare, chiosare, riaccendere. Una canzone non è una sinfonia o un melodramma, non è un poema, non è l’occasione di una grande performance letteraria. Essa diventa capolavoro quando, mentre assolve in pieno il suo ruolo di incontrare le emozioni quotidiane, riesce ad essere buona musica. Non mi interessano le canzoni sociali, politiche, o simili, se non nei termini in cui riescano ad entrare nell’anima con la loro melodia. Certe nenie ossessive con interminabili messaggi da carta dei diritti dell’uomo e del cittadino, o palpitanti di demagogici avvertimenti, o percorse da prediche più adatte ai pulpiti, non possono appartenere al mondo della canzone come io la intendo e falliscono pure nella loro pretesa di ammaestramento, di protesta, o di denuncia, trasformandosi spesso in polpette poco digeribili. Sono grandi canzoni Yesterday, Sapore di sale, Canzone per te, Volare, tanto per riferirci agli Anni Sessanta della musica leggera, non tutte le altre da queste troppo lontane.
Perciò, nonostante l’ambizione di essere melodica all’italiana, la canzone di Vecchioni mi risulta noiosa non solo per la ripetitività delle parti, ma soprattutto per l’intenzione non velata di lanciare messaggi sociali e morali, in un mondo ritenuto obbrobrioso, ma guarda caso capace di ospitare l’arca di Noè di un amore salvifico.
È solo il mio parere, naturalmente.
Amato Maria bernabei